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Federico Perozziello

Psichiatra, psicoterapeuta, psicoanalista.

Sono uno psichiatra, uno psicoterapeuta, dovrei dire meglio uno psicoanalista se non mi suonasse un po’ tronfio, di sessantotto anni. Ho iniziato la mia attività nel lontano 1976, dopo la laurea in medicina conseguita a Napoli. All’epoca l’impegno per una psichiatria che rompesse le logiche manicomiali mi assorbì completamente e iniziai a lavorare prima a Napoli e poi a Torino sia nell’ospedale psichiatrico di Collegno, dove ho dato il mio contributo ai processi di deistituzionalizzazione, e, successivamente, in un quartiere molto complesso di Torino. Tornato in Campania ho proseguito la mia attività in vari servizi di salute mentale. Intanto ho fatto una formazione analitica attraverso un percorso personale, seguendo corsi promossi dal Tavistock Clinic di Londra, supervisioni e approfondimenti teorici con Pier Francesco Galli e con collaboratori della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, con Fabiola Leclerc, presso l’ABA di Milano e con Silvia Amati SAS per le tematiche relative alla violenza e all’abuso. Ho insegnato per alcuni anni alla scuola di specializzazione in Psichiatria e al corso di riabilitazione psichiatrica della Seconda Università di Napoli.
Il confronto con la sofferenza psichica dei miei pazienti mi ha portato ad approfondire una serie di tematiche quali ad esempio il rapporto tra psicopatologia ed arte (sia da un punto di vista teorico che per le pratiche di arte terapia), le dinamiche del trauma legato all’abuso e alla violenza estrema e altro. Una delle spinte alla base di questa ricerca è probabilmente dovuta al bisogno di attraversare quel nebuloso senso di oppressione che un’amica psicoanalista ha definito un “bisogno di sublimazione”. Sublimazione che ha a che fare con l’ineludibile fondo di violenza comunque presente nella cura della sofferenza psichica, al di là delle intenzioni dei soggetti che la praticano. Violenza perché in modo più o meno celato, immancabilmente, si presuppone che l’altro abbandoni il suo mondo di sensazioni, convinzioni per ritornare dove presumiamo egli debba stare.

Federico Perozziello - Orione - Fondazione Sinapsi

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Esistono i colori in natura? Alla domanda apparentemente provocatoria si potrebbe rispondere sì e no, in quanto è il nostro cervello che, attraverso alcune cellule nervose, i fotorecettori chiamati coni, presenti nella parte più sensibile della retina (fovea) convertono alcune lunghezze d’onda dei fotoni della luce in segnali che definiamo colori.

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Interrogare il tema posto da Orione ha una sua prima complessità: evitare l’ovvio. L’Ovvio che di per sé, nella sua generica in-significanza di affermazioni ripetute come un refrain, è l’opposto di quanto è nelle intenzioni della redazione della rivista: dare/ridare al concetto di partecipazione una centralità di significato operativo e di solidarietà.

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Parto da due immagini per sviluppare le note che intendo proporre. La prima è quella di una mostra: Collezione di utensili in disuso, legati al lavoro artigianale, di Piero Leddi.[1] Non ho alcuna intenzione di riproporre logiche nostalgiche di un passato felice — se non il dispiacere, per quel che mi riguarda, del disuso delle penne stilografiche.

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Del tema proposto dalla redazione di Orione proverò, attraverso qualche breve riflessione, a evidenziare due questioni. Una riguarda l’identità a cui rimanda l’immagine delle radici e l’altra, partendo dal concetto di madre-terra, alle correlazioni, ma anche alle dissonanze, tra la terra, intesa come Habitat, la funzione materna e l’agire umano.

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Inseparabile dal problema stesso della persona, dall’immagine di sè e dell’altro, la maschera, pur mutando supporto, stile, funzioni, è ancora destinata ad accompagnare, «mettendole in scena», le vicende delle culture. In questo senso taluni artisti l’hanno proposta come simbolo della società stessa, nel momento stesso in cui si vive in una delle più acute crisi d’identità.