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Cibo come nutrimento della mancanza e del desiderio

2 Agosto 2021
Guardando i canali televisivi in un giorno qualunque, ci accorgeremmo di quante pubblicità riguardanti il cibo, di quanti programmi sono centrati sui modi più raffinati di preparare pietanze nuove o originali, di quante competizioni volte a stabilire i migliori ristoranti, i cuochi dilettanti più bravi o di quante sfide per accedere a scuole esclusive di cucina.

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Cibo come nutrimento della mancanza e del desiderio

2 Agosto 2021
Guardando i canali televisivi in un giorno qualunque, ci accorgeremmo di quante pubblicità riguardanti il cibo, di quanti programmi sono centrati sui modi più raffinati di preparare pietanze nuove o originali, di quante competizioni volte a stabilire i migliori ristoranti, i cuochi dilettanti più bravi o di quante sfide per accedere a scuole esclusive di cucina.

Domenico Cosenza[1] afferma che il problema dell’alimentazione oggi, nelle società occidentali, è in relazione proprio alla presenza del cibo – di un eccesso di cibo – e non alla sua assenza. Nell’ambito della riflessione che vorremmo proporre in questo numero di Orione, abbiamo dunque scelto di centrare il nostro intervento sul concetto di nutrimento. Nei diversi dizionari, con questo termine, nutrimento appunto, s’intende sia “fornire a sé e agli altri cibo necessario per la sopravvivenza” sia, in senso figurato, “arricchire le facoltà spirituali e intellettuali di qualcuno, coltivare nell’animo un sentimento, una disposizione verso gli altri o verso qualcosa”, come l’arte o lo studio per esempio. Per aprire, abbiamo deciso di prendere spunto da due vecchi film: La grande abbuffata, diretto da Marco Ferreri nel 1973, e Il pranzo di Babette, uscito nel 1987 per la regia di Gabriel Axel, tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen. Il primo racconta di quattro uomini che, stanchi della loro vita noiosa e inappagante, decidono di suicidarsi mangiando fino alla morte. Una morte per eccesso di cibo dunque, grottesca metafora e feroce critica alla società dei consumi e del benessere, condannata, secondo il regista, a un’inevitabile autodistruzione. Nel secondo, la protagonista, Babette Hersant, sfuggita alla repressione della Comune di Parigi, viene accolta in uno sperduto villaggio danese da due anziane signorine alle quali ricambia l’ospitalità ricevuta offrendo il suo lavoro da governante. Dopo molti anni, da Parigi, le arriva una grossa vincita di denaro, che tuttavia lei non usa per tornare in Francia, bensì per preparare un pranzo alla memoria del padre delle due generose donne, pastore e guida spirituale del luogo. I dodici abitanti del villaggio, invitati da Babette, sedotti dalla bontà del cibo, dall’atmosfera e dall’amore con cui i piatti sono stati preparati, diventano gioviali e felici, trovando così la forza per superare le loro discordie, fino ad arrivare a danzare insieme tenendosi per mano sotto un cielo colmo di stelle. Questi due film, apparentemente così lontani, in realtà, pur partendo da prospettive opposte nell’enfasi che assegnano al cibo, in positivo e negativo, racchiudono alcuni dei molteplici significati del concetto di nutrimento nell’attuale sviluppo della nostra società. A distanza di quasi cinquant’anni dal primo e di quasi quaranta dall’altro, quello che poteva essere un messaggio eversivo in Ferreri o una sorta di dono, di arte del nutrimento come espressione di gratitudine e creatività nel pranzo preparato da Babette si è trasformato in reificazione, sovraesposizione del cibo per vivere meglio o in tecnica fine a sé stessa, attraverso l’enfasi data alla preparazione degli alimenti. In entrambi i casi, si è privato il nutrimento di ogni dimensione simbolica, di ogni convivialità, di ogni possibilità di favorire legami tra soggetti. Babette, donando con amore e gratitudine a chi l’ha aiutata la sua arte di grande cuoca, rimanda a un significato fondante del concetto di nutrimento per l’essere umano, quello della relazione madre-bambino. Il bambino nasce biologicamente prematuro, troppo presto rispetto alla maturazione del proprio cervello. Può sopravvivere e svilupparsi solo in quanto parte di una relazione con la madre che dovrà provvedere e rispondere non solo ai suoi bisogni fisiologici, ma anche a prendersi complessivamente cura di lui, “tenendolo in braccio” non solo fisicamente, come sottolinea Donald Winnicott, e assicurandogli la “base sicura” di cui parla John Bolwlby fondamentale per la sua crescita. Dalla qualità affettiva di questa relazione primaria, da quanto la figura d’attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante, capace di un contatto caldo e rassicurante e di una sintonizzazione empatica, dipenderà lo sviluppo delle potenzialità innate e della socialità del bambino. Nella sua relazione con i caregiver, nel loro “accordarsi”, dunque, si può trovare una mirabile sintesi del duplice significato del termine nutrimento: quello più materiale di “fornire cibo” e l’altro, figurato, di “alimentare le facoltà spirituali e intellettuali di qualcuno”. Eppure, lo psicoanalista René Kaës sostiene che, più di altre epoche, la nostra contemporaneità, da lui definita “ipermodernità”, è caratterizzata da una sorta di dissonante “scordatura” dell’uomo dalla natura, dagli altri, dalla cultura che ha creato e, innanzitutto, da sé stesso. L’accento che mette va su un tipo di malessere più profondo e severo del concetto di disagio usato da Freud a proposito del rapporto soggetto/soggetti/civiltà. Tale malessere affligge l’umanità dell’uomo e colpisce più radicalmente la nostra possibilità di essere al mondo con gli altri e la nostra capacità di esistere per noi stessi, e trova espressione tanto in una “impregnazione cupa e melanconica che s’impossessa degli animi e dei corpi, dei legami intersoggettivi e delle strutture sociali”, quanto in una “cultura dell’eccesso maniacale e onnipotente” attraverso la continua spinta a dover consumare gli oggetti che il mercato offre in modo illimitato e globalizzato[2]. Per Massimo Recalcati e Umberto Zaccardi Merli[3] si tratta di “consumare senza trattenere nulla, vivere in costante accelerazione, tritare tutto, moltiplicare le esperienze senza più essere in grado di apprezzarle né distinguerle, essere schiavi del fascino ipnotico delle marche e dei gadget e, infine, verificare drammaticamente… come tutto questo oro che sembra rivestire l’oggetto di godimento si trasformi in fango, così come nella bulimia il cibo ingurgitato si trasforma in vomito”. Non a caso, i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) costituiscono forme di sofferenza che hanno trovato e trovano nel malessere contemporaneo spazi sempre più diffusi, modi di manifestarsi continuamente cangianti e sono estremamente problematici da affrontare. Apparentemente ruotano unicamente intorno al problema cibo, al corpo e ai rituali a questi connessi. D’altra parte, quanti sono segnati da tali disturbi, in un paradossale e illusorio rafforzamento del proprio senso di identità, spesso si presentano non con il proprio nome, ma dicendo: «Sono anoressica/o», «Sono bulimica/o». Eppure, dietro questa omologazione, si nasconde l’unicità di ogni storia e delle determinanti che hanno portato il soggetto a quel particolare modo di vivere il disturbo. Un aspetto inquietante che La grande abbuffata ci aiuta a rappresentare, fin dal titolo, è costituito da quel disperato e mortifero tentativo, di sorprendente attualità, del voler riempire un vuoto esistenziale che riguarda il registro simbolico con il concreto del cibo. A questo proposito, Massimo Recalcati e Umberto Zaccardi Merli[4] affermano che, nella nostra epoca, si compie “la metamorfosi della mancanza in vuoto. Ma la mancanza è ciò che costituisce l’essere umano come tale. La nostra esistenza non è infatti mai qualcosa di compiuto… Nondimeno, questa mancanza è l’occasione che ciascuno di noi ha per far sorgere il proprio desiderio, per renderlo creativo… (la) nostra epoca consiste precisamente nel ridurre questa mancanza… a un vuoto…”. Nel film La grande abbuffata, l’esito è la morte dei protagonisti, la deriva possibile della nostra condizione attuale è il rischio di perdere la capacità di trovare un nutrimento efficace e creativo a quel senso di mancanza che segna l’essenza stessa dell’umano. Babette, invece, ci indica una possibile alternativa: nel preparare in modo amorevole il suo pranzo, come forma di amore e gratitudine, riempie la sua mancanza, il suo dolore per l’esilio e per le perdite subite, in un dono capace di nutrire sé stessa e i suoi ospiti e consentire loro di ritrovare un senso di condivisione e di gioia perduti. Fin qui abbiamo provato a leggere il discorso sull’alimentazione attraverso il concetto di nutrimento nelle sue accezioni simboliche strettamente legate alla dimensione della relazione e dell’intersoggettività, così ben sintetizzate da Primo Levi nella frase “In ognuno la traccia di ognuno”. La citazione di Jón Kalman Stefánsson con cui abbiamo aperto racchiude in poche righe la direzione e il senso di quello che abbiamo inteso dire, poiché descrive una mancanza, quella originata dalla morte della madre di uno dei protagonisti del romanzo, che tuttavia non si trasforma in vuoto, ma si esprime attraverso la nostalgia del ricordo di lei nel momento in cui nutre il figlio Ari, preparando il pesce, raccontando storie, cantando e nel momento in cui il suo donare, anche distratto e non perfetto, esprime tutta la bellezza del mondo. Ci piace concludere con una serie di interrogativi a cui un collega impegnato da anni nella complessa cura dei DCA — il dottor Giuseppe d’Aquino con la sua équipe — si pone ogni volta che incontra chi è segnato da questa sofferenza: che cosa rifiutano quanti soffrono di anoressia quando rifiutano il cibo? Di cosa ha fame il soggetto bulimico e che cosa vomita? Che cosa spinge il paziente con BED, cioè il Binge Eating Disorder, a ingurgitare cibo fino a sentirsi scoppiare? Da che cosa si protegge con il grasso chi è obeso? Interrogativi ai quali il dottor d’Aquino risponde: “Non è nostra capacità poter saturare queste cinque domande. Le risposte le cerchiamo ogni giorno insieme ai nostri pazienti”.[5]

NOTE

[1] Domenico Cosenza: Il cibo e l’inconscio, anoressia, bulimia e discorso alimentare in Il Corpo Ostaggio (a cura di Massimo Recalcati) — Borla — 1998

[2] Ibidem

[4] Ibidem

[5] in PANE E VELENO: Chiedere amore e avere cose edizioni — Fondazione CERps — 2017

per citare questo articolo

Federico Perozziello:

Cibo come nutrimento della mancanza e del desiderio,

n. 23 - Nutrimento,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Un’intima intervista con la chef stellata Rosanna Marziale. Con lei parlare di cibo significa parlare di poesia, emozioni, sentimenti, legami. L’obiettivo della sua cucina è quello di nutrire secondo materie prime di indiscussa qualità senza dimenticare il modo, la forma e i tempi in cui proporre piatti che diventino momenti di vita da ricordare.