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Dettaglio Copertina Orione n. 21 - Condivisione - 6

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Delle condivisioni possibili, della qualità delle relazioni

1 Dicembre 2020
«Se sopprimi l’alterità tutto sarà unità indistinta e silenzio». Plotino In modo provocatorio parto dalla citazione di Plotino in esergo per affrontare il tema della condivisione ed evidenziare fin da subito un possibile rischio qualora si desse a questo termine una valenza unicamente positiva, cosa che pure indubbiamente racchiude tra i suoi significati.
Dettaglio Copertina Orione n. 21 - Condivisione - 6

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Delle condivisioni possibili, della qualità delle relazioni

1 Dicembre 2020
«Se sopprimi l’alterità tutto sarà unità indistinta e silenzio». Plotino In modo provocatorio parto dalla citazione di Plotino in esergo per affrontare il tema della condivisione ed evidenziare fin da subito un possibile rischio qualora si desse a questo termine una valenza unicamente positiva, cosa che pure indubbiamente racchiude tra i suoi significati.

Etimologicamente la parola condividere significa possedere insieme; partecipare insieme; offrire del proprio ad altri, «Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno, non si guardò neppure intorno ma versò il vino e spezzò il pane per chi diceva, ho sete, ho fame» (Il pescatore, Fabrizio De André). Secondo alcuni il termine potrebbe derivare anche dal latino con dis videre: «insieme separati vedere», un’apparente ossimoro se non si rifletta sul fatto che la possibilità di una condivisione presuppone l’esistenza di uno spazio, di una distanza e dunque di una separazione, per consentire una qualche comunicazione, dunque uno scambio, un dono. La fusionalità, la simbiosi, l’essere un tutt’uno con l’altro, per contro, comporta il rischio di far precipitare in una dimensione confusiva, di perdere le coordinate orientative di se stessi e di portare a relazioni collusive, di connivenza. Anche a questi concetti, però, è opportuno non dare una connotazione di per sé negativa. La fusionalità è un passaggio fondamentale nella relazione madre-bambino, un’esperienza primaria assolutamente necessaria. Alla nascita il bambino si trova in una condizione di impotenza e di estremo bisogno, chiamato da Freud Hilflosigkeit, e non è in grado di sopravvivere con le sole sue forze. Solo un interscambio totale (corporeo e psichico) con la madre, col proprio ambiente ne può consentire la sopravvivenza e una possibile adeguata crescita. In questa ottica viene postulato da J. Bleger, (psicoanalista argentino, ispiratosi a Henry Wallon) una fase fisiologica di indifferenziazione primaria tra il bambino e la madre e/o chi si prende cura di lui, tra l’io e il non io (mondo)[1] come punto di partenza dello sviluppo umano. Questa condizione di confusione iniziale può essere rappresentata in modo poetico dal quadro di Paul Klee, proposto in queste pagine in cui tutte le figure, indefinite, appena abbozzate si mescolano e si confondono l’uno con e nell’altra. Nel bambino la fame d’amore, la necessità della presenza materna non ha un valore meno significativo della fame di cibo.


Paul Klee, Spielende Fische – miniaturartig, Pesci che giocano (miniaturistico) — (1917; acquerello, penna e matita su carta su cartoncino 9,5 x 16 cm; Collezione privata)

L’altro quadro, una maternità di Picasso, rimanda attraverso la mirabile sintesi di una sola immagine a questa condivisione profonda. Gli occhi del bambino e la sua manina sono protesi verso la madre, ma anche verso il mondo e negli occhi della madre si rispecchiano quelli del suo piccolo, accogliendone i bisogni. In chiave psicoanalitica tale disposizione materna si definisce col termine reverie: la madre ascolta il pianto del suo bambino  espressione di angosce primitive legate ad esperienze di frustrazione (fame, suoni invasivi, freddo, dolori…), dà a esse un significato (ha mal di pancia, ha fame, ha freddo…) e mette in atto azioni che il più delle volte risolvono la sofferenza del nascituro. Questa prima stretta condivisione (angoscia del piccolo, accoglimento, riconoscimento, risoluzione di essa da parte della madre/ambiente accudente), oltre alla risposta al bisogno, pone le basi per lo sviluppo della capacità di pensare del bambino (come evidenziato dallo psicoanalista Wilfred Bion), della possibilità di affacciarsi al mondo, di essere potenzialmente in grado di tollerare le proprie angosce, simbolizzandole e costituisce altresì il prototipo di altri tipi di condivisione profonda quali, ad esempio, la capacità di empatia, di intimità, e molte altre. Lo sviluppo umano, il raggiungimento della propria autonomia sarà una lunga, faticosa discriminazione dalla fusione primitiva e un passaggio graduale dall’essere dentro la madre allo stare con la madre.

Pablo Picasso, Madre e figlio, 1921, olio su tela, 142,9 x 172,7 cm. Chicago, Art Institute
Pablo Picasso, Madre e figlio, 1921, olio su tela, 142,9 x 172,7 cm. Chicago, Art Institute

In queste note è mia intenzione centrare il discorso sulla condivisione annodandolo a quello di reverie, prima illustrato, di empatia, di intimità e di altre modalità relazionali più autentiche di interscambio e contrapponendolo a forme di rapporto più superficiali e qualitativamente meno valide. Il concetto di empatia non nasce nell’ambito della psicologia, ma è stato mutuato dalla storia dell’arte (deriva dal tedesco einfuhlung,letteralmente immedesimazione): esperienza di fusione dell’anima con la natura, concepita quest’ultima quale flusso vitale spirituale. L’empatia, letteralmente sentire dentro un’altra persona, indica la capacità degli esseri umani di condividere e partecipare alle vicende dei propri simili, è un conoscere emotivamente partecipe, che accoglie l’altro intuendone il vissuto. La normale comprensione empatica, oltre a essere alla base di ogni professione di aiuto, è ubiquitaria e caratterizza una vasta componente della comunicazione umana.Prima facevo riferimento all’intimità come direttamente derivante dalla iniziale fase fusionale. Per Bolognini[2] l’intimità (intimo deriva dal latino intra = dentro) è la dimensione relazionale in cui i mondi interni degli esseri umani possono fisiologicamente comunicare tra loro e scambiare, aggiungerei, condividere, contenuti, sensazioni.

Se la condivisione non ha un certo grado di autentica intimità, di empatia, di emozioni comunicate, rimane una routine abitudinaria, addirittura banale che non ha niente da dire se non rimandare un inutile vuoto. In effetti l’aumento esponenziale della pervasività dei social network ha dato al concetto un’accezione più concreta e direi più superficiale in cui esso indica l’azione del pubblicare, del comunicare, del portare alla conoscenza dei propri amici un pensiero, un testo, una canzone, un video, un sito e tutto il resto. «Provo a volte un senso di vergogna a non mettere sui social ad esempio la foto di me col mio nipotino in braccio…» Queste parole dette con una certa inquietudine e imbarazzo da un mio paziente volevano esprimere le sua difficoltà a condividere con la comunità allargata dei suoi contatti un momento di intima tenerezza, quasi fosse una mancanza, una sorta di colpa di cui provare vergogna. Nella nostra epoca in cui tutti sono (più o meno volontariamente) sotto gli occhi di tutti, la privacy finisce per essere una nota a margine, un di più rispetto alla necessità/bisogno di essere, almeno apparentemente, trasparenti, direi senza pudore. Assistiamo così al fatto che tanti, purtroppo, senza alcuna remora si sentono in diritto di condividere col mondo (quello virtuale, almeno) ogni forma di volgarità, di dileggio, di atrocità, di discorsi razzisti, di inaudita, cinica violenza — si pensi per esempio ai tanti like messi agli assassini di Willy Monteiro, 21 anni, a Colleferro. Purtroppo questi non sono banali fenomeni di costume, ma costituiscono forti derive che portano a farci cadere in quella adattabilità inconscia, a quell’involontaria connivenza col sistema della violenza. In effetti la violenza nella nostra attuale società spesso gridata, esibita in modo quasi pornografico, senza veli né ritegno, sembra aver perso ogni connotato di drammaticità e persino il carattere di realtà, finendo per abituarci a essa e per considerarla ovvia come ha ben evidenziato la psicoanalista argentina Silvia Amati Sas. La messa in questione del valore positivo in sé del concetto di condivisione mi aiuta, oltre a evitare ogni banalizzazione del discorso, a porre in evidenza ancora un altro rischio implicito nell’enfatizzare la ricerca, direi spasmodica, di trovare nella relazione con l’altro una sorta di assoluta omogeneità di vedute e di intenti. Tale atteggiamento, pur volto a tentare di rinforzare un’identità magari sentita come precaria, finisce, però, per negare ogni possibile diversità. Diversità che non necessariamente costituisce un fattore di distanziamento o di oppositività, ma può essere un elemento potenzialmente capace di attivare un confronto di posizioni diverse, di far nascere pensieri originali su se stessi e sugli altri. Il filosofo e sinologo francese François Jullien[3] afferma l’importanza di disassimilare, di liberarsi della tendenza immediata a ridurre tutto al simile, all’omogeneo e creare uno scarto in seno a quello che si credeva apparentemente familiare, condiviso per cogliere la possibilità di un altro possibile. «Lo scarto… separando e perturbando l’omologia presupposta, fa emergere l’altro o, meglio, dell’altro: lo fa scaturire (risaltare) vitalmente…»[4], lo pone sotto osservazione senza lasciarlo cadere nello scontato, nel simile. Dunque la condivisione, quella reale, profonda dovrebbe procedere in una doppia direzione: andare verso l’altro, verso ciò che unisce, ma anche avere la libertà di guardare senza paura, in senso inverso, ciò che distingue senza il bisogno di costruire muri, di stigmatizzare, o, peggio, di mettere in atto una qualche forma di violenza.

Concludo queste note proponendo due romanzi: L’altra madre di Andrej Longo[5] e Luce d’estate ed è subito sera, dello scrittore islandese Jon Kalman Stefansson[6] in quanto ritengo racchiudano in modo molto più significativo di ogni discorso teorico il senso di ciò che può essere una reale, profonda condivisione contrapposta alle logiche dei Like. De L’altra madre farò un breve riassunto, mentre del bellissimo e poetico libro di Kalman Stefansson riporterò un piccolo passo.

Andrej Longo descrive la drammatica vicenda di un ragazzo napoletano di sedici anni, Genny, abile nel guidare le moto che accetta con una qualche reticenza la richiesta di accompagnare un amico più grande in un taccheggio. Durante l’aggressione per impadronirsi della borsa di Tania, una ragazza di quindici anni, questa cade e muore. La madre di Tania, poliziotta, decide di farsi giustizia da sola. Cattura Genny, lo imprigiona in casa sua e gli impone di indossare i vestiti della figlia, di mangiare le cose che la ragazza preferiva, di sfogliare i quaderni, di leggerne i diari, di fare i giochi che madre e figlia utilizzavano spesso per divertirsi insieme. In sostanza costringe il ragazzo a condividere con lei ciò che costituiva il suo legame con la figlia. Genny anche se in una situazione di costrizione passa progressivamente dall’idea che quella donna sia pazza a prendere consapevolezza di ciò che ha fatto e comincia a provare sulla sua pelle, condividendola, tutta la disperazione di quella madre. Proprio questa condivisione del dolore porterà il ragazzo, oramai liberato dalla donna, a seguire una sua intuizione, a tornare di nuovo nella casa dove era stato tenuto prigioniero e in questo modo scongiurare il suicidio della madre di Tania. La violenza iniziale messa in atto da entrambi i personaggi, attraverso lo stabilirsi di una relazione prima forzata poi man mano divenuta dolore condiviso, porta a una trasformazione profonda di Genny, divenuto capace di immedesimarsi con quella donna, di salvarle la vita e, probabilmente, di darle la possibilità di elaborare il suo lutto. Il romanzo dello scrittore Kalman Stefansson racconta le storie degli abitanti di una piccola comunità rurale del nord dell’Islanda. Il brano che ho scelto mi aiuta a rappresentare la possibilità di un incontro e di una condivisione profonda anche tra due sconosciuti che parlano lingue molto diverse tra loro. Benedikt parte dal suo piccolo paese concedendosi una breve vacanza a Londra. Nella confusione della grande metropoli prende consapevolezza dell’amore che prova per una donna e, sentendo il bisogno di rompere la sua abitudine alla solitudine, di raccontarlo a qualcuno.

Benedikt guarda l’uomo al tavolo accanto, i tavoli sono molto vicini, è normale, è la grande città… L’uomo è un arabo piccolo e grassoccio in abito elegante… Benedikt gli dice: in fin dei conti non c’è bisogno di dire tanto, quello che importa è usare le parole giuste… cerca di parlare inglese ma l’islandese continua a farsi strada spingendo via le parole straniere, l’arabo comunque annuisce e risponde in un miscuglio di arabo e inglese. Benedikt si trascina la sedia fino a lui… e poi gli racconta che è alta, che ha quegli occhi, che porta quegli stivali di pelle, e che irradia quella luce interiore, l’arabo guarda dritto in faccia a Benedikt, ascolta, poi tira fuori la foto di una donna araba, Benedikt guarda dritto in faccia l’arabo, annuisce, così passa la giornata e anche la sera. Verso mezzanotte Benedikt abbraccia forte l’arabo, quasi piangono per doversi separare…

NOTE

[1] «All’inizio – dice Freud (1930) — l’io ingloba tutto e poi espelle da sé il mondo esterno». Il primo ipotetico senso dell’esistenza è per Freud un sentimento oceanico: l’essere un tutt’uno indifferenziato con un mondo indifferenziato.

[2] Stefano Bolognini (Bologna, 1949), psicoanalista, relazione presentata al convegno a Pisa: Intimità. Variazioni psicoanalitiche — 16 settembre 2017

[3] François Jullien: L’apparizione dell’altro — Feltrinelli — 2020

[4] Opera citata, pagina 124.

[5] Andrej Longo: L’altra madre — Adelphi — 2016

[6] Jon Kalman Stefansson: Luce d’estate ed è subito sera — Edizioni Iperborea — 2013

per citare questo articolo

Federico Perozziello:

Delle condivisioni possibili, della qualità delle relazioni,

n. 21 - Condivisione,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Paul Watzlawick nel suo prezioso Pragmatica della comunicazione umana teorizza, forse per la prima volta con una metodologia scientifica, una serie di assiomi che descrivono proprietà tipiche della comunicazione aventi importanti implicazioni relazionali. L’assunto iniziale è che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare, implicando livelli comunicativi non solo di contenuto ma anche di relazione.

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Negli attuali contesti storici lo sharing, il condividere, indica una relazione intenzionale di apertura all’Altro. Ha un valore inestimabile perché sottende a una volontà delle persone coinvolte di fare insieme, di arrivare ad un obiettivo comune, creando nel contempo, inconsapevolmente, legame sociale e sostegno alla coesione sociale. Alla base dello sharing moderno c’è una scelta, che si distingue dalla condivisione di spazi e risorse che ha caratterizzato la vita sociale degli uomini prima della Rivoluzione industriale.