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Diego Velázquez, Las Meninas, 1656. Museo del Prado, Madrid.

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La dimensione relazionale nell’ottica centro-periferia

4 Agosto 2020
Proverò ad affrontare la dialettica centro-periferia o periferia-centro accennando a due aspetti: la relazione tra soggetti forti e gli altri, i portatori di disabilità e/o sofferenze psichiche e, ancora, la dinamica, tutta interna al soggetto stesso, tra l’esserci, inteso come consapevolezza di sé rispetto a un lasciarsi esistere.
Diego Velázquez, Las Meninas, 1656. Museo del Prado, Madrid.

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La dimensione relazionale nell’ottica centro-periferia

4 Agosto 2020
Proverò ad affrontare la dialettica centro-periferia o periferia-centro accennando a due aspetti: la relazione tra soggetti forti e gli altri, i portatori di disabilità e/o sofferenze psichiche e, ancora, la dinamica, tutta interna al soggetto stesso, tra l’esserci, inteso come consapevolezza di sé rispetto a un lasciarsi esistere.

Freud nel 1914 in Introduzione al narcisismo afferma che l’individuo conduce una doppia esistenza «come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento contro o comunque indipendentemente dal suo volere». In sostanza i genitori fanno del bambino, già prima della sua nascita, il portatore della realizzazione di proprie aspettative irrealizzate, così come le generazioni precedenti hanno fatto con loro: una catena in cui centro e periferia, essere soggetto o oggetto dell’altro, finiscono per confondersi. In questa ottica appare non così scontato riuscire a stabilire se in certi momenti della propria esistenza si è in una posizione di autodeterminazione o, di fatto, ci si colloca alla periferia di una relazione, di un agire, di circostanze o di altre situazioni. Un qualche aiuto potrebbe venirci dal provare a definire il punto di osservazione in cui si è, ma anche questa prospettiva ha molti livelli di incertezza e una sua intrinseca complessità che provo a mostrare attraverso un quadro famoso di Diego Velasquez, Las Meninas, esposto al Prado. Al di là dell’infanta Margarita, in primo piano quello che ci interessa qui è la grande tela sulla sinistra dietro alla quale c’è Velasquez intento a dipingere… ma cosa? Lo si capisce dallo specchio che è alle sue spalle in cui sono riflesse le figure del re Filippo IV e della regina Marianna. L’artista sta facendo il ritratto dei reali e contestualmente, in un gioco di prospettive, invece di mostrare ciò che lui vede, pone lo spettatore stesso all’interno del quadro, confondendo ciò che è centro e ciò che è periferia. Dove voglio arrivare? Non sempre vi è una collocazione spaziale chiara e definita che rende il senso complessivo di una questione, di un comportamento, di una relazione, della conoscenza dell’altro.

«A dire il vero è un’idiozia bella e buona sostenere di conoscere a fondo qualcuno, c’è sempre un angolo che resta buio, nell’ombra, a volte anche un intero edificio…» Luce d’estate ed è subito notte di Joan Lalmenstefansson

Qui si potrebbe aprire tutto il discorso dell’inconscio e/o dell’archetipo dell’ombra di Jung, termine che egli mutuò da Friedrich Nietzsche per rappresentare la parte di personalità nascosta di ognuno. Vorrei, però, in queste note, centrare l’attenzione innanzitutto sul rapporto tra consapevolezza di sé e abbandono alla routine, presente in modo significativo anche nella nostra contemporaneità definita da molti ipermodernità. Secondo lo psicoanalista francese René Kaës, ciò che caratterizza la nostra epoca sta nel prefisso iper-, nell’eccesso, nell’eccitazione, nel sovradimensionamento di ogni emozione, di ogni espressione, di ogni atto. «L’umanità sta restando sconfitta dal troppo»,ha detto il filosofo Aldo Masullo da poco scomparso. Un troppo, un eccesso che determina una forma di malessere, caratterizzato da una sorta di radicale precarietà, di profonda inquietudine sia nella relazione con gli altri che nella capacità di esistere per se stessi. Sofferenza alla cui base contribuiscono svariati fattori, tra cui un mix caratterizzato da un senso di spaesamento di fronte all’ampiezza e alla rapidità dei cambiamenti sopraggiunti negli ultimi decenni e a un mondo sempre più instabile nelle sue regole(si veda Società liquida di Bauman)da un narcisismo esasperato in cui non si è disposti a cedere nulla di ciò che si vuole, dalla perdita di un qualche riferimento valoriale. Tutto ciò si riflette nelle relazioni con incontri sostanzialmente effimeri e nel rifugiarsi, al di fuori dei momenti di eccitazione e di esaltazione narcisistica, nell’abitudine, nell’ovvio, nella routine. Thomas Stearns Eliot, nel poema La terra desolata del 1922, fotografa bene questo precipitare in un nonsense dei rapporti:

La dattilografa a casa all’ora del tè, mentre sparecchia la colazione…
Ed ecco arriva il giovanotto foruncoloso,
Impiegato d’una piccola agenzia di locazione, sguardo ardito…
Ora il momento è favorevole, come bene indovina,
Il pasto è ormai finito, e lei è annoiata e stanca,
Lui cerca d’ impegnarla alle carezze
Che non sono respinte, anche se non desiderate.
Eccitato e deciso, ecco immediatamente l’assale;
Le sue mani esploranti non incontrano difesa;
La sua vanità non pretende che vi sia un’intesa, ritiene
L’indifferenza gradita accettazione.
E brancola verso l’uscita, trovando le scale non illuminate…

L’automatica meccanica dei gesti, l’assenza di ogni emozione illustrata dai versi di Eliot mostra come anche oggi, molto spesso, nelle relazioni, dietro un apparente protagonismo, vi è una sorta di navigazione lasciata al campo magnetico delle abitudini, a un non esserci o a un essere periferici nei confronti di se stessi, dell’altro e complessivamente della propria esistenza. In realtà se non c’è una cristallizzazione di tale atteggiamento in qualche forma di sofferenza psichica o psicosomatica ognuno di noi oscilla, a seconda dei momenti e delle circostanze della propria vita, tra un abbandono poco consapevole alla routine o, per contro, un cercare di dare maggiore centro al proprio stare al mondo. Le squallide vicende pseudoamorose dei versi di Eliot mi aiutano non solo a mostrare il rischio sempre presente di una perdita di senso della propria soggettività, ma anche una frequente, diffusa non qualità delle relazioni interpersonali tra le persone presunte normali. Su questo termine ci sarebbe molto da dire, qui sottolineo solo che nonostante le lotte fatte negli anni passati, non vi è stato un diffuso atteggiamento di più matura accettazione della diversità dell’altro. Al politically correct, spesso solo retorico, oggi assistiamo purtroppo frequentemente a una sorta di gusto (?) nello stigmatizzare in modo grossolano, a volte volgare e disumanizzante, il non uguale, l’altro non appartenente alla propria tribù, quella dei sani, dei bianchi, del nord, del sud, del paese vicino, della squadra rivale… Limitando il campo alla dimensione della sofferenza psichica e delle disabilità questi atteggiamenti appaiono l’aspetto degenerato, da basso impero, di una posizione assunta dalla psichiatria allo stato nascente tra Ottocento e inizio Novecento, scientifica per l’epoca, di fronte alla pazzia. All’interno del discorso positivista, la sofferenza psichica venne osservata secondo una dimensione anatomico-clinica e i diversi vennero studiati nei termini della “misurazione” di ciò che li separava dalla normalità al fine di una classificazione categoriale. La centralità era costituita dalla malattia e dalla capacità dello psichiatra di cogliere in ogni quadro clinico le invarianze, le tipicità sintomatologiche mentre del tutto periferica era la posizione del paziente. All’inizio del ‘900, con lo sviluppo dell’indirizzo fenomenologico della psichiatria (Minkowski, Jaspers, Binswanger,)e con la psicoanalisi (Freud), acquistarono invece centralità l’individuo portatore di una sofferenza considerata unica e irripetibile, il terapeuta con la sua soggettività e la qualità della relazione nel processo di cura.

«Noi non comprendiamo nulla della follia finché ci comportiamo di fronte al folle come soggetti disinteressati o, che è lo stesso, consideriamo il folle semplicemente come oggetto». La psichiatria come scienza dell’uomo, Ludwig Binsw

Parto da una mia esperienza per illustrare la complessità di questo approccio. Circa quaranta anni fa da poco mi cominciavo a sentire medico quando, nel reparto psichiatrico per acuti di Torino, svolgendo un turno di guardia , vidi apparire nella stanza dove stavo insieme agli infermieri una donna di circa trent’anni, appena ricoverata, che, quasi danzando, ripeteva con voce sottile e melodiosa una filastrocca, lasciandoci tutti in un silenzio sbigottito: «Mio padre mi diceva “sei la mia stella” e io ho contato le stelle, le stelle sono cadute. Io le contavo, loro cadevano su di me. In Argentina le ho contate non c’era l’Orsa Maggiore c’era qualcosa d’altro, mia madre mi diceva di non contare le stelle io le ho contate S.O.S., Help, Aiuto, Lalilá, Lalilí, Lalalilí Lalalilá che vuol dire aiuto? L’eternità sono qua da un’eternità quanti numeri ha un’eternità? Ha tanti numeri ma questo è il paradiso? Sono qui in paradiso? La paura fa novanta o novantacinque? Lalí, Lalalilá, Lalalilá Lalilí, Lalì Lalalilà Lalalilà». Non ho mai conosciuto il suo nome, la chiamerò Liala, né compresi mai il senso di quelle parole, ma rimasi catturato dalla leggerezza dei suoi movimenti, dal suono di incanto della voce, da quella melodia divenuta un’amara carezza per gli altri, non certo per se stessa. Dopo tutti questi anni ancora mi interrogo su quella cantilena che pure esprimeva un dolore profondo, elevava un grido sommesso per reclamare libertà, per raccontare forse una o più violenze, il suo disperato vissuto di non essere a noi osservatori attoniti, prigionieri della nostra normalità. Non so se quel grido sia stato mai ascoltato (temo di no) e se sia diventato il nodo di una rete comunicativa che avrebbe potuto aprire un dialogo, attivare una relazione terapeutica. In realtà l’incontro con i soggetti portatori di disabilità psico-fisica e/o di una sofferenza psichica più o meno grave non è mai scontato, al di là della retorica, del bla bla delle buone intenzioni. Le parole di Liala rappresentano di fatto uno delle sfide più ardue da affrontare per chi lavora nel nostro campo. Costituiscono un aspetto costitutivo nella faticosa dialettica tra il senso di impotenza di fronte al terribile, insondabile dolore dell’altro e il tentativo\il bisogno di cercare di comprenderlo, — nel senso del cum prehendo: contenere in sé, accogliere nella mente, in sé. Il problema allora diventa il tentare di trovare i tramiti comunicativi, non solo appartenenti al registro verbale, per stabilire una relazione che possa avere una valenza terapeutica, di recupero di una possibilità esistenziale per quel soggetto. Non c’è alternativa d’altra parte, perché, come affermava un paziente di Ronald Laing: «È il più terrificante dei sentimenti rendersi conto che Il medico non sa vedere la tua realtà, che non sa capire quello che senti… Cominciavo a sentire di essere invisibile e forse di non esserci nemmeno». (L’io diviso, Ronald Laing, 1960)

per citare questo articolo

Federico Perozziello:

La dimensione relazionale nell’ottica centro-periferia,

n. 20 - Periferie,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Sin dagli anni del dopoguerra, le narrazioni di Rossellini, Visconti, De Sica, Germi e altri autori del neorealismo, non ultimi Fellini e Pasolini, documentando la realtà, hanno contribuito a costruire l’immaginario delle periferie che ha assunto un aspetto peculiare.

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Intervista a Carlo Ratti. Il suo nome compare tra i Names You Need to Know di Forbes e i Best & Brightest dell’Esquire. È nella lista delle 50 persone che cambieranno il mondo secondo Wired e tra i 50 designer più influenti in America secondo Fast Company, oltre a essere anche tra i 60 innovators shaping our creative future per Thames & Hudson.

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Qualche anno fa, muovendomi in un’antica biblioteca lagobiondese, entrai nella Sala dei manoscritti e lì capitò tra le mie mani il diario di bordo di Padre Scorza, un missionario lucano vissuto presso un’antica tribù africana. Niente riuscii a sapere della sua vita mentre, in calce ad alcune pagine, lui stesso aveva annotato aspetti di quella tribù che mi avevano particolarmente colpito.