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Per copertina Orione n. 24, Omaggio a Gino Strada, illustrazione di Bruna Pallante. Dettaglio.

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Resistere nella contemporaneità

24 Gennaio 2022
“…cercare il senso, per voler essere e non lasciarsi essere dalle cose del mondo.” Enrico Mreule, in Un altro mare di Claudio Magris
Per copertina Orione n. 24, Omaggio a Gino Strada, illustrazione di Bruna Pallante. Dettaglio.

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Resistere nella contemporaneità

24 Gennaio 2022
“…cercare il senso, per voler essere e non lasciarsi essere dalle cose del mondo.” Enrico Mreule, in Un altro mare di Claudio Magris

Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis, nella loro Enciclopedia della psicoanalisi, descrivono il termine “resistenza” come ciò che “nel corso della cura psicoanalitica… negli atti e nei discorsi dell’analizzato, si oppone all’accesso di questi al proprio inconscio”. Sigmund Freud, dopo aver abbandonato l’ipnosi – secondo alcuni perché non era sufficientemente abile a indurla –, nell’Interpretazione dei sogni (1899), descrisse la tecnica delle libere associazioni per la cura dei suoi pazienti: nel chiedere loro di riferire tutte le idee e le parole che si presentavano alla mente, senza compiere nessun tentativo di controllo cosciente su questo materiale, si rese conto che, nonostante la relativa semplicità del compito, i suoi pazienti non riuscivano ad adempierlo. Di fronte a questa evidente difficoltà, tuttavia, non si scoraggiò, potremmo dire che riuscì a resistere alla tentazione di rinunciare anche al nuovo metodo e cercò di comprendere cosa non funzionasse nelle terapie, nelle sue teorizzazioni e perché. Ipotizzò allora, nell’analizzato, l’esistenza di resistenze inconsce al buon esito del trattamento, attraverso le quali, paradossalmente e in modo inconsapevole, sembrava volersi difendere dalla guarigione. Secondo molti autori, fu proprio l’approccio di Freud a questa problematica contraddizione a segnare la nascita della psicoanalisi. Successivamente, si accorse che alcune forme di resistenza potevano riguardare anche i terapeuti. In una lettera del 1909 diretta a Carl Gustav Jung, fece riferimento al coinvolgimento emotivo del collega nei confronti di una sua paziente, quella che è passata alla storia col nome di Sabina Spielrein e sottolineò l’importanza, per l’analista, di non cedere ai possibili atteggiamenti seduttivi delle pazienti, in quanto ciò avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per la terapia. In quell’occasione, per la prima volta parlò di “contro traslazione” (controtransfert), concetto che approfondirà nell’anno successivo (1910), descrivendolo come la reazione dell’analista al transfert del paziente. Freud, considerò il controtransfert una sorta di ostacolo, di resistenza del terapeuta al buon esito del trattamento terapeutico, per cui indicò la necessità che gli analisti riconoscessero questi loro sentimenti inconsci e li risolvessero tramite autonalisi o sottoponendosi a un ulteriore trattamento psicoanalitico. Solo dopo quarant’anni dalla prima definizione freudiana, il concetto di controtransfert fu ridefinito e riabilitato da Paula Heimann nel 1950 e, pochi anni dopo, nel 1953, da Heinrich Racker, secondo il quale, il terapeuta, attraverso l’attenzione posta al controtransfert, dunque al proprio vissuto emotivo in risposta a quello del paziente, ha la possibilità di capire cosa questi pensa e sente. Sotto lo stimolo del tema che ispira e permea questo nuovo numero di Orione, partendo dal campo psicodinamico, abbiamo voluto fare un’analisi del concetto di “resistenza” in due delle sue possibili polarità. Questo si può configurare come un fattore che ostacola il cambiamento, la guarigione, ma anche, attraverso la comprensione della natura delle nostre contraddizioni e ambiguità, diventare strumento capace di far fronte a momenti esistenziali complessi, critici, traumatici (concetto di resilienza) in modo a volte creativo, come ci dimostra il caso di Freud. Allargando il nostro orizzonte di osservazione ad aspetti più generali e inquietanti della contemporaneità, ci pare vi sia oggi proprio una forte deriva che rischia di portare all’evaporazione, nel concetto stesso di “resistenza”, della sua accezione critica, conoscitiva. Di fronte, per esempio, all’individualismo radicale, all’ossessione mediatico-comunicativa, a una diffusa incapacità nello stabilire adeguati livelli di empatia nelle relazioni, a un affannato competere più contro qualcuno che per raggiungere un qualche obiettivo, sempre più complessa ci appare la possibilità di mettere in atto una qualche forma di resilienza. Ancor più drammatica ci sembra la prevalente tendenza all’accettazione passiva di una diffusa violenza sia verbale che agita, a volte strisciante, insidiosa, altre volte esplicita, volgare, esibita e gridata come una sorta di trofeo e in cui l’altro perde ogni connotazione di soggetto. Violenza che, assumendo un ruolo sempre più pervasivo nel nostro quotidiano, smarrisce ogni connotato di drammaticità. In effetti, anche grazie alla cassa di risonanza dei social, risulta indefinita la distinzione tra la realtà della violenza stessa e la finzione, per cui ogni forma di prevaricazione rischia di essere sentita come un’ineluttabile contingenza del quotidiano, diventando “ovvia”, nel senso che Michael Eigen1 dà a questo aggettivo, riferito cioè a qualcosa che non viene più percepita come segnale catastrofico, e quindi allarmante, ma come la realtà. Potremmo rappresentare queste preoccupanti derive sociali con un’immagine, e precisamente quella del dipinto di Gaspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia (1818), manifesto del Romanticismo. Se quest’opera può illustrare bene il primo significato del concetto di empatia,2 ovvero l’essere completamente fusi con la natura, altrettanto bene, riteniamo, possa essere usato per esemplificare quell’attuale tendenza a restare completamente immersi in una sorta di “mare di nebbia” che ci impedisce di avere una più o meno chiara visione delle contraddizioni, delle ingiustizie insite nella realtà in cui viviamo. Non è, però, nostra intenzione, in queste note, denunciare unicamente la spinta al non pensiero, all’agire acefalo, poiché ci preme sottolineare anche la possibilità di resistere e contrastare un mortifero, inconsapevole esserci, possibilità che a noi sembra ben rappresentata dal quadro di Arnold Böcklin, L’isola dei morti. Silvia Amati Sas, nell’ambito del trattamento psicoanalitico di vittime di violenze estreme – come torture o abusi sessuali – ha messo in luce l’importanza da parte del terapeuta di resistere, in alcuni momenti della cura, a un sentimento di desaliento, cioè di “scoramento”, legato alla perdita della propria convinzione terapeutica nel dover affrontare, con i soli mezzi metaforici della psicoterapia, dei traumi che sono espressione di una diffusa violenza quotidiana, nella quale, a qualche livello, siamo tutti implicati. In ogni epoca, anche le più buie, emerge sempre una qualche forma di resilienza, magari attraverso l’incanto, la capacità di meravigliarsi, la poesia con il suo valore onirico e simbolico, e ancora con il cercare e, a volte, riuscire ad avere uno sguardo più consapevole su noi stessi, sul mondo e sugli effetti adattativi e conformistici che la deriva sociale attuale esercita su di noi. Si tratta evidentemente di una continua ricerca, mai risolta, spesso anche dolorosa, ma che dovrebbe essere il più possibile attiva, volta a smascherare quei fattori intrapsichici, interpersonali, sociali che portano a negare ogni possibilità di espressione della propria soggettività. Una soggettività non incarcerata dalla dimensione narcisistica, ma che dovrebbe tendere ad aprirsi alle relazioni sociali in modo dialettico e senza mai trascurare le questioni etiche in esse implicate. In sostanza provare a esplorare con coraggio nuove e più valide forme di reale razionalità, mai disgiunte dalla dimensione emozionale e di resistere, in modo magari creativo, il più possibile vicino al nostro sentire, alla forza attrattiva del pensiero dominante, del “trionfo di chi non sa”,3 del sempre più pervasivo impero delle fake news. Uno dei possibili strumenti che ci possono guidare a raggiungere questo obbiettivo ce lo suggerisce ancora una volta Silvia Amati Sas, quando sottolinea la necessità di mantenere un costante “allarme Etico” nel cogliere in noi stessi i movimenti di indignazione di fronte all’inaccettabile della violenza e il porre attenzione alle reazioni difensive, quali il possibile emergere di una sorta di anestesia rispetto all’evidenza di atti di crudeltà, di prevaricazione, sopruso di una qualche istituzione, di un essere umano nei confronti di un altro. Ci piace concludere queste note con un passo tratto da un libro di Jón Kalman Stefánsson, che sintetizza in modo intenso e poetico quanto avevamo intenzione di esprimere in queste note.

“Le cose che abbiamo imparato non le abbiamo apprese dalla morte ma dalla poesia, dalla disperazione e infine dai ricordi felici, come dai grandi tradimenti. Non deteniamo alcuna saggezza, però ciò che vacilla in fondo al nostro animo la sostituisce e forse ha più valore… Da qualche parte nel profondo delle regioni dello spirito, di questa coscienza che rende l’umanità sublime e maledetta, si nasconde comunque una luce che… rifiuta di cedere il passo al peso delle tenebre e alla morte che soffoca.”4

NOTE

1 Silvia Amati Sas: Ambiguità, conformismo e adattamento alla violenza sociale – Franco Angeli – 2020

2 II concetto di empatia è stato utilizzato inizialmente da autori romantici tedeschi come Johann Gottfried Herder e Novalis, per descrivere l’esperienza di fusione dell’anima con la natura, ma è stato il filosofo e psicologo tedesco Theodor Lipps che, nel saggio del 1906 Empatia e godimento estetico, l’ha definita come una funzione psicologica fondamentale per l’esperienza estetica.

3 Come si legge nella quarta di copertina dell’ultimo libro di Sabino Cassese: Intellettuali – Il Mulino – 2021

4 Jón Kalman Stefánsson: La tristezza degli angeli – Iperborea – 2012

per citare questo articolo

Federico Perozziello, Rosa Buonomo:

Resistere nella contemporaneità,

n. 24 - Resistenze,

gennaio-aprile 2022

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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In fisica, quando si parla di resistenza, viene subito in mente l’elettricità. In particolare i circuiti elettrici. Quando ai due capi di un circuito c’è una differenza di potenziale, ovvero ci sono da un lato più cariche positive e dall’altro più cariche negative, la forza elettrica che si viene a creare genera un passaggio di cariche da un lato all’altro.