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Freud e il gioco del Fort Da

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La solitudine delle vittime di violenza

1 Settembre 2022
“A mio parere, uno dei fattori più importanti da tenere presente circa l’esperienza traumatica è che il paziente ha dovuto affrontare tutto da solo, talvolta per un tempo considerevole”. (Rosenfeld, 1987)
Freud e il gioco del Fort Da

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La solitudine delle vittime di violenza

1 Settembre 2022
“A mio parere, uno dei fattori più importanti da tenere presente circa l’esperienza traumatica è che il paziente ha dovuto affrontare tutto da solo, talvolta per un tempo considerevole”. (Rosenfeld, 1987)

Forse per esorcizzare le suggestioni, per lo più dolenti, che il tema delle solitudini evoca, vogliamo partire da un gioco, Fort Da, il Gioco del Rocchetto, descritto da Freud in uno scritto del 1920, Al di là del principio del piacere, frutto della sua diretta osservazione del nipote di diciotto mesi, figlio dell’amata figlia Sophie. Il bambino gettava lontano da sé, oltre il bordo della culla, un rocchetto di legno agganciato a una funicella, per poi recuperarlo, accompagnando questa altalena con due ¢vocalizzi: «o-o-o», «a-a-a». La madre, in accordo con Freud, non riteneva fossero semplici interiezioni, ma i due fonemi di lingua tedesca: Fort (via, lontano, partire) e Da (qui, ecco). Tutto il gioco era costituito da questi quattro elementi: i due vocalizzi Fort/Da, l’attività ripetitiva del bambino intento a far scomparire-apparire e l’oggetto, il rocchetto che simbolizzava la madre. La lettura di Freud del gioco, inserita in un testo in cui introduceva il concetto di coazione a ripetere e di pulsione di morte, consisteva nel ritenere che il piccolo, attraverso il far comparire e scomparire il rocchetto, tentasse di sopportare l’allontanamento della madre e un sentimento che, crescendo, avrebbe definito come solitudine e noi con lui. Non a caso Orione propone come titolo “Solitudini”, al plurale, per mettere in campo il ventaglio di significati ed emozioni che si incarnano in questo concetto, sia gli aspetti sofferti, legati all’assenza dell’altro, alla mancanza a sé stesso, che quelli invece del bisogno dell’autoriflessione, del pensamento, della premessa necessaria per raggiungere una qualche consapevolezza. Più che spendere molte parole vorremmo rappresentare questa seconda accezione attraverso un quadro di Hopper, definito per diversi motivi il pittore della Solitudine: Morning sun del 1952.

Edward Hopper: Morning sun — 1952
Edward Hopper: Morning sun — 1952

In esso il pittore statunitense raffigura una donna (sua moglie, presa a modella in tutte le figure femminili dei suoi quadri) che guarda fuori da una ampia finestra, accarezzata da un raggio di sole, attonita, persa nei suoi pensieri, in un bouquet di immagini, al confine tra mondo interno ed esterno, completamente assorta nella solitudine delle proprie riflessioni. Contestualmente, il quadro rimanda, all’artista stesso e a chi guarda, il riflesso di un’emozione che, però, può essere condivisa, che accompagna il nostro esserci (e quello dell’artista) e in questo accompagnarci riesce a volte a lenire il vissuto di solitudine. Il gioco del rocchetto ha a che fare con questo bisogno originario di fare i conti con l’assenza e viene considerato un prototipo dei processi di astrazione, di simbolizzazione. La creazione di un gioco, Fort Da, come tentativo di fronteggiare la mancanza della madre, dell’altro che è la cifra di ogni sentimento di solitudine. Benché Freud lo negò con decisione al suo primo biografo, Fritz Wittels, forse anche Al di là del principio del piacere, fu scritto risentendo di un suo turbamento affettivo legato al lutto per la morte improvvisa, proprio in quell’anno, della diletta figlia Sophie avvenuta a pochi giorni di distanza (il 25 gennaio 1920) dalla morte del suo carissimo amico e collaboratore Anton von Freund. Tra i tanti possibili percorsi impliciti nel discorso proponiamo due brevi suggestioni legate alla solitudine che vive chi subisce una qualche forma di violenza, maltrattamento e che non trova nel proprio ambiente di vita un supporto, un sostegno. Una solitudine che potremmo dire radicale e che può tradursi anche in un senso di estraneità verso se stessi (si pensi, ad esempio, alla depersonalizzazione, alla derealizzazione nell’ambito dei disturbi dissociativi). La prima riguarda Primo Levi e la troviamo nel decimo capitolo di Se questo è un uomo, intitolato L’esame di chimica. «Panniwitz è alto, magro, biondo ha gli occhi, capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli… Io, Hoftlling (prigioniero) 174517, sto in piedi nel suo studio… lucido, pulito… e mi pare che lascerei una macchia sporca dovunque dovessi toccare… alzò gli occhi e mi guardò… quello sguardo non corse tra due uomini… sguardo scambiato come attraverso la parete di vetro di un acquario tra due esseri che abitano mezzi diversi…».

Due uomini apparentemente si incontrano, ma sono ad Auschwitz. Uno è il chimico del lager, l’altro il numero 174517. Si guardano, si parlano, ma sono lontani, addirittura in mezzi diversi, il primo respira aria, il prigioniero, è in un acquario. Il senso drammatico di questa mancanza di riconoscimento si racchiude nella perturbante emozione dell’essere soli in presenza di un altro. In questo non-incontro si ha la perdita di quella condivisione dell’umano, della rottura della complementarietà intersoggettiva, ben descritta ad esempio da psicoanalisti argentini quali Bleger, Silvia Amati Sas che poggia su radici antiche e profonde. Riguarda la relazione che si instaura alla nascita tra un bambino segnato dall’estrema impotenza a sopravvivere da solo (Hilfosigkeit definito da Freud) e le figure genitoriali, base imprescindibile per ogni possibile sviluppo psicofisico.

La rottura di questo implicito patto di co-esistenza nega di fatto non solo la dimensione costitutiva dell’essere con qualcuno, ma porta anche alla solitudine di non riuscire ad essere con se stessi. «Mi sono laureato a Torino nel 1941, summa cum laude, e mentre lo dico, ho la precisa sensazione di non essere creduto, a dire il vero non ci credo io stesso…». Se Primo Levi di fronte alla violenza che Panniwitz rappresenta, nonostante la sua condizione, si pone ancora l’interrogativo: «Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo… soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana». Panniwitz, invece lo guarda pensando: «Questo qualcosa davanti a me appartiene a un genere che è ovviamente opportuno sopprimere. Nel caso particolare, occorre prima accertarsi che non contenga qualche elemento utilizzabile». «…Quello sguardo non corse fra due uomini…» e in esso non trovava spazio alcuna declinazione dell’umano, ma veniva rispecchiato il vuoto di una tremenda, drammatica solitudine. La redazione di Orione ha proposto per quelle solitudini che non fanno bene all’anima un approccio critico e propositivo. A questo proposito vorremmo riportare un frammento di una complessa terapia analitica effettuata da Silvia Amati Sas a una giovane donna latinoamericana, Altea, dopo la sua liberazione da un campo di concentramento in cui fu torturata, continuamente minacciata di essere uccisa e dove per diversi anni subì violenze di ogni tipo, fisiche e mentali. Il nostro intento è quello di evidenziare come anche una condizione di estrema solitudine può trovare, all’interno di un ascolto attento e partecipato, la possibilità di una condivisione e, dunque, attivare un percorso elaborativo anche di situazioni traumatiche tremende. La terapia stava volgendo al termine quando un giorno Altea non si recò alla seduta né avvertì, cosa molto strana da parte sua. Nell’incontro successivo disse che non era voluta venire perché si sentiva molto male. «Ho provato lo stesso disagio di quando ero venuta qui la prima volta dieci anni fa e ho sentito una terribile vergogna a caricarla nuovamente dei miei problemi. Volevo essere abbastanza forte da portare tutto questo da sola, però, non ci sono riuscita». Poi mostrò un documento alla terapeuta in cui si diceva che il cadavere inumato col nome di suo marito (ucciso quando lei fu catturata) risultava essere in realtà la composizione delle ossa di parecchie persone diverse. Silvia Amati Sas espresse alla paziente il suo stato d’animo di sconcerto e la sua indignazione. «Dissi che capivo il suo sforzo di portare questo peso da sola perché, essendo lei molto colpita, non voleva che queste cose terribili gravassero su di me, ma che questa volta era davvero troppo per portarlo da sola». Alla seduta del giorno dopo Altea disse di star meglio e riferì un sogno in cui vedeva la faccia della terapeuta e si domandava se fosse lei o sua madre. Collegandosi a questo sogno, la paziente si domandava «perché io mi prestassi a portare insieme a lei questi pesi e disse: “Se lei è mia madre, è naturale che lo faccia; però, se lei non è mia madre, come potrò ripagarla? E perché lo fa?”». La terapeuta si era posta la stessa domanda esistenziale tra le due sedute in un momento di sconforto (ma perché lo faccio?) e questo le consentì di rispondere alla paziente senza nessuna esitazione: «Lo faccio perché anch’io sono nello stesso sudicio mondo, un mondo di merda». All’interno di un percorso terapeutico, dunque, in cui la dimensione umana gioca un ruolo fondante più di quella specificamente tecnica, comunque assolutamente necessaria, si può aprire la possibilità, diremmo anche la speranza, che faticosamente, dolorosamente sia per la paziente che per il terapeuta, si realizzi una condivisione profonda tra due esseri umani, capace di “trasformare la spaventosa realtà oggettiva in soggettività condivisa, a un livello che non neghi il panico e il terrore, ma riesca a trasformarli in parole”, in simboli che, attraverso lo scambio emozionale dell’incontro, hanno la potenza di affrontare la terribile solitudine in cui la violenza e il dolore ci imprigionano. Concludiamo queste note con una citazione del filosofo coreano Byung-Chul Han perché costituisce un augurio e ci indica una prospettiva meno cupa per il futuro, in un tempo, il nostro, segnato da profonde incertezze, da violenze gratuite, da inquietanti possibili catastrofi e di fronte al quale ci sentiamo a volte profondamente soli, quando riusciamo ad uscire dall’ovvio del quotidiano. «L’ascolto restituisce a ciascuno il suo proprio… La rumorosa società della stanchezza è sorda. La società a venire potrebbe invece chiamarsi una società dell’ascolto e dell’attenzione. Oggi è necessaria una rivoluzione del tempo che dia inizio a un tipo di tempo completamente diverso. Si tratta di scoprire di nuovo il tempo dell’altro… All’opposto il tempo del sé, che ci rende soli e isola, il tempo dell’Altro istituisce una comunità. Questo tempo, perciò, è un buon tempo».1

PER APPROFONDIRE

1 Byung-Chul Han: L’espulsione dell’altro — Figure Nottetempo — 2017

per citare questo articolo

Federico Perozziello, Rosa Buonomo:

La solitudine delle vittime di violenza,

n. 26 - Solitudini,

settembre-dicembre 2022

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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In Preludio a un bacio di Tony Laudadio, Emanuele racconta in prima persona la sua storia dolcissima, complicata e anche un po’ surreale. Emanuele è un barbone, un musicista solo che, per mantenersi, suona agli angoli delle strade, facendo innamorare i passanti della sua musica.

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Quando la solitudine non farà più rima con marginalità sociale, etnica, culturale, economica, politica vivremo in una dimensione sana, dove saremo in grado di apprezzare la faccia buona della solitudine. Quella che si traduce in un tempo privato ed estremamente prezioso per ogni singolo essere umano.