Skip to content
Orione 30 - La Cura - Dettaglio di copertina. Illustrazione di Bruna Pallante, "Omaggio a Trotula de Ruggiero"

|

Rapsodia sulla cura

14 Febbraio 2024
1. «Tuccio, cura a sòrete!...» Ogni tanto risento la voce di mia madre che m’ingiunge di vigilare su mia sorella, di prestarle attenzione.
Orione 30 - La Cura - Dettaglio di copertina. Illustrazione di Bruna Pallante, "Omaggio a Trotula de Ruggiero"

|

Rapsodia sulla cura

14 Febbraio 2024
1. «Tuccio, cura a sòrete!...» Ogni tanto risento la voce di mia madre che m’ingiunge di vigilare su mia sorella, di prestarle attenzione.

Mia sorella ha un anno e sta dentro un seggiolone e io le sto vicino, seduto su un gradino. Mio fratello e gli altri due bambini della masseria, giocano sull’aia. Cura tua sorella, cioè preoccupati di lei. Non è la cura del medico, è quella esistenziale, quella che Heidegger chiama “Sorge”, distinguendola dalla prima che è, invece, “Kur”. Anche gli inglesi distinguono i verbi “to cure”, che significa curare, da “to care” che vuol dire interessarsi, prendersi cura, preoccuparsi, mostrare sollecitudine nei confronti di qualcuno/a.

Come tutti sono oggetto e soggetto di pratiche di cura. Non sarei ciò che sono (nel bene e nel male) senza la mia famiglia originaria e acquisita, senza la scuola (ai suoi diversi gradi) dove sono stato studente e insegnante, senza le amiche e gli amici, la sanità pubblica, la politica. La cura è un fenomeno capillare, così capillare da non vederlo più. Trascorre impercettibilmente nello scontato, nell’ovvio, nel naturale. Basta poco, però, per rendersi conto che la situazione non è proprio così. Basta che improvvisamente s’inceppino per le ragioni più varie l’organizzazione e la divisione sociale del lavoro domestico; basta che dei nonni si ammalino ed ecco crearsi un allarme per chi deve andare a ritirare il pupo all’asilo o la pupa alla scuola dell’infanzia. C’è un lavoro di cura. C’è stato un tempo, ricordo, che le femministe, oltre alla liberazione, chiedevano un salario domestico perché quello della riproduzione è un lavoro. Riproduzione non vuol dire soltanto fare figli e curarli. Vuol dire rifare letti, cucinare, lavare panni, stirare camicie, accompagnare figli a scuola, seguirli. Produzione e riproduzione sociale sono due attività connesse anche se sembrano separate. La recente pandemia ha mostrato in maniera lampante questa connessione. 

2.

Stamattina faccio il mio solito giro dei siti e, neanche a farlo apposta, m’imbatto in questa memorabile frase di Don Lorenzo Milani, tratta da una Lettera ai Giudici

«Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande “I CARE”. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori: “me ne importa, mi sta a cuore”. È il contrario esatto del motto fascista: “me ne frego”». 

Il prendersi cura è questo: il contrario del “me ne frego” fascista, ma anche il contrario dell’individualismo illimitato che caratterizza la società liberista e liberale del nostro tempo o del comunitarismo sovranista delle “piccole patrie” caratterizzate da un Noi chiuso, ossessivo e paranoico.

Scopro che Marco Bersani ha scritto un libro intitolato La rivoluzione della cura. Uscire dal capitalismo per avere un futuro. Non so. Forse esagera. Può la “rivoluzione della cura” aiutarci a uscire dal capitalismo? Ripeto: non so. Ciò che so è che mi sta a cuore la mia vulnerabilità, la mia fragilità, la mia dipendenza. Mi sta a cuore la mia salute/malattia, la mia morte all’orizzonte. Non ho mai pensato che ognuno/a di noi possa fare a meno degli altri. Non siamo monadi senza porte né finestre. Si è autonomi e indipendenti in un quadro di dipendenze reciproche. Siamo interdipendenti, siamo legati gli uni agli altri dalla cooperazione sociale. Senza il grano dei contadini chi vive in città non mangia.

3.

Per oltre un decennio faccio il maestro di scuola elementare. A fine giugno del 1978, il direttore mi chiama nel suo ufficio. È seduto dietro al lungo tavolo blu, luccicante per la spessa lastra di vetro che lo ricopre. Alle spalle, la biblioteca coi suoi libri ben in fila, libri di cui conosco abbastanza i titoli. Il direttore viene da Vimercate e nel Circolo è un reggente. Esonerato dall’insegnamento, ho fatto per due anni il suo vice e su quella poltrona mi sono seduto frequentemente. In vari momenti, m’è capitato di sfogliare questo o quel libro. 

Viene subito al dunque.

«Caro maestro, dal prossimo anno scolastico, nella classe prima dove l’assegnerò sarà inserito un bambino portatore di handicap…»

È un colpo allo stomaco. Incasso e cerco di mantenere una certa freddezza.

«Ah, sì!… Bene!… E qual è il suo handicap?»

«Tetraparesi spastica…»

«Non ne so niente. Sono completamente impreparato…»

«Tutti i maestri e le maestre sono abbastanza impreparati. La legge che abolisce le classi differenziali e che autorizza l’inserimento dei bambini portatori di handicap è la 517. È stata approvata l’anno scorso, agli inizi di agosto. Per due anni è stato mio collaboratore, queste cose le sa. Qualche giorno fa mi ha annunciato la sua legittima intenzione di non farmi più da vice. Bene, conoscendo la sua preparazione pedagogica, chi più di lei è nelle condizioni di poter avviare una simile esperienza?»

Mi sento messo con le spalle al muro.

«D’accordo, signor direttore, mi dia il tempo di pensarci…»

«Di prepararsi, vuole dire! Di prepararsi sì. Ha tutta l’estate. Lei prenda pure contatto con l’équipe psico-pedagogica e chieda tutti i suggerimenti di cui ha bisogno o i consigli che desidera…»

«D’accordo»

In direzione la conversazione finisce in questo modo asciutto. Appena mi ritrovo nel corridoio, respiro a lungo, poi mi dirigo verso il cortile della scuola, cercando di tenere a bada la mia ansia.

Quando, qualche giorno dopo, m’incontro con l’équipe vengo sufficientemente rassicurato. Mi indicano dei libri da leggere e ci mettiamo d’accordo che avrei incontrato il bambino alcuni giorni prima dell’inizio delle lezioni. 

D’estate leggo e a settembre incontro il bambino. È un incontro vivo, stracolmo di reciproche curiosità, proficuo. S. è accompagnato dalla madre, è il suo primo figlio, ma non resta attaccato alla sua gonna. Mi scruta a lungo, cerca di avvicinarsi e di darmi la mano, mi trova simpatico e me lo dice. Per muoversi il corpo oscilla, il capo è rivolto verso l’alto, articola a fatica le parole, ma si capisce. Gli rispondo che anche lui è simpatico. S., infatti, è un bambino bello e gradevole; la madre racconta frammenti della sua storia e guarda con trepidazione al nostro incontro. Ci mettiamo d’accordo sui bisogni del figlio, sui suoi livelli di autonomia, sul modo migliore di inserirlo in classe. L’inserimento andrà benissimo. S. diventerà il mio alunno più amato.

4.

Scrivendo “più amato”, faccio chiaramente il verso al titolo del bel libro di Carla Gallo Barbisio I figli più amati pubblicato nel 1979; un libro che inaugura un filone molto interessante di racconti d’esperienza con bambini “diversi”; dieci anni dopo esce il libro di Clara Sereni Manicomio primavera e nel duemila Nati due volte di Giuseppe Pontiggia. Dedica: «Ai disabili che lottano / non per diventare normali / ma se stessi».

A coronare questo genere, in questi mesi viene pubblicato il libro di Ada d’Adamo Come d’aria. Vince il Premio Strega. Esplicitamente autobiografico, racconta il dolore della cura, della cura di sé stessa (l’autrice, affetta da un cancro all’ultimo stadio, muore ad aprile) e della cura prestata, fin dalla nascita, a Daria, la figlia gravemente disabile. 

«Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada. Sarò D’aria».

per citare questo articolo

Donato Salzarulo:

Rapsodia sulla cura,

n. 30 - La cura,

gennaio-aprile 2024

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero