Nella prima strofa cita: «Con i tasti che ci abbiamo/bianchi e neri giocheremo/e di un limite faremo/una possibilità». L’invito è quello di fare con ciò che si ha, e non con quello che si desidererebbe avere, cogliendo nel limite una possibilità.
«È un principio che vale un po’ per ogni cosa — ci dice Capossela — ma quanto vale di più quando il limite a cui si fa riferimento è un limite oggettivo, imposto da una condizione che materialmente ci rende diversi in un mondo costruito per ottimizzare sempre tutto e che tende a scartare tutto quello che rappresenta un ostacolo». Nel corso dell’intervista, che da tanto speravamo potesse concederci, ricordiamo a Capossela di avergli consegnato, in una giornata dello Sponz Fest di questa estate, una copia di Orione, Il pensiero magico, con i tratti del suo volto stampati in copertina. E lui, con riferimento alla nostra rivista e al nostro lavoro, ci parla di diversità: ci racconta del particolare coinvolgimento con cui ha appreso della Giornata dei Calzini Spaiati e dell’entusiasmo con cui condivide l’idea del calzino spaiato come simbolo giocoso della differenza. Ci ricorda del suo Paradiso dei calzini, lo spazio altro che sovverte la condizione di chi in questo mondo non è accoppiato o si è smarrito o da questo mondo è stato sparigliato. «Il tema dell’inclusione» prosegue Vinicio, «è un tema enorme che ha uffici stampa un po’ diversi, nel senso che per alcuni versi finisce per avere una grande esposizione mediatica, spesso con narrazioni sbagliate, per altri invece non la trova affatto; la necessità e la disabilità sono argomenti sempre fastidiosi poiché l’essere umano fatica a volersene occupare». «Non è un caso» ci ricorda Capossela, «che la rivoluzione del messaggio cristiano, che riguarda proprio l’intima natura dell’essere umano, è quella di amare chi invece ci viene da evitare. È veramente rivoluzionario fare quello sforzo che ci vuole anche solo per vederle le cose: bisogna che i cosiddetti normali, ma spesso non vedenti, recuperando il senso di questa rivoluzione, facciano di più per accorgersi delle cose e che nel vivere collettivo e comune si tengano presenti le differenze sostanziali, così che il principio di fare del limite una possibilità non riguardi soltanto il mondo delle idee ma anche quello della pratica. E allora chiediamo a Capossela:
Cosa si aspetta dalla diffusione delle Tredici Canzoni?
Le canzoni, come tutte le forme di pensiero, possono servire a sentirsi meno isolati e meno separati dagli altri, soprattutto se abbracciano un senso di vivere civile, di comunità, di cosa politica cioè pubblica e, dunque, di qualcosa che va al di là dei nostri stati d’animo e delle nostre vicende. Diverse di queste canzoni nascono dall’urgenza di rompere il muro dell’individualità e dell’individualismo quindi è stato importante scriverle, suonarle e poi eseguirle in pubblico. Quando anche oggi si parla di ‘cosa pubblica’, non si è più organici a qualcosa, si parla sempre in maniera individuale e isolata, dunque l’aspettativa è proprio quella di rompere il senso di isolamento.
Perché è stato urgente scrivere queste Tredici canzoni?
La necessità, da cui scaturiscono queste canzoni, è data dal senso del pericolo che si prova, particolarmente in questo momento, in cui viviamo quasi assuefatti al dilagare delle guerre, della crisi, del revisionismo storico, cui si è aggiunta ultimamente l’incapacità della politica di servire le esigenze della società civile, anche per quello che riguarda cose essenziali, come i diritti, la gestione dell’istruzione e della sanità. C’è un’area di recessione dei costumi e delle idee che viene espressa dal teatro della politica, intesa quasi come spettacolo, spesso anche poco civile. Le canzoni sono 13 ma avrebbero potuto essere di più perché sono molti i temi che nelle canzoni possono essere affrontati.
I suoi interventi sono, dunque, politici o comunque interessati alle vite dei più fragili. Dove si colloca la sua musica nel dialogo (incontro-scontro) tra le parti sociali e la politica?
La musica, la canzone, il pensiero possono agire sulle coscienze. Fare musica non cambia il mondo, ma può essere un’occasione di esercizio di consapevolezza. Secondo me, la nostra coscienza e il nostro agire sono le sole cose di cui siamo padroni, quindi le canzoni e l’arte possono dare un contributo nel lavoro che si fa sull’unica cosa di cui si è direttamente responsabili, cioè la nostra coscienza.
Qual è il ruolo della sua musica e della sua arte rispetto al cambiamento sociale?
La musica e l’arte non hanno un ruolo, hanno delle intenzioni ma non hanno un ruolo.
Negli ultimi tempi, sembra che riusciamo a vederla più spesso sui media. Prima era molto raro vederla in tv e le sue apparizioni social si potevano contare sulle dita di una mano. A cosa è dovuto l’incremento della sua presenza mediatica?
Volevo promuovere queste canzoni perché ci credevo, mi sono messo un po’ al servizio del lavoro su questo disco perché le cose si scrivono ma si completano con l’ascolto e la condivisione, quindi se uno ha qualcosa da dire in cui crede, allora prova a farla conoscere.
Qual è la fonte d’ispirazione che le fa mettere insieme delle parole che abbiano un valore e un senso?
L’ispirazione è cosa diversa dal mettere insieme le parole in modo sensato. L’ispirazione può venire da fatti della vita o incontri: nel mio caso è stato incontrare una persona con la quale agire e fare caso in modo diverso alle cose, una persona con cui assorbire anche il disagio di un certo tipo di realtà sbagliata e con la quale cercare di confrontarmi. Un bellissimo libro dice che «ogni storia è una storia d’amore» e alla fine c’è sempre questa componente che viene dalla vita. Per scrivere le cose, per mettere insieme le parole ci vuole un lavoro, occorre studiare, documentarsi e confrontarsi, soprattutto se i temi non riguardano questioni interiori. La musica, poi, è un lavoro che si fa insieme: può esserci una scintilla o un’ispirazione però, poi, ciò che si fa perché una canzone acquisti una sua forma e consistenza, un suo suono e arrangiamento è un lavoro di grande confronto con gli altri, quindi la musica è un lavoro sociale. Credo davvero che la musica, come dicevano i greci antichi, insieme alla ginnastica, sia l’attività necessaria a formare dei buoni cittadini. È interessante anche notare che «gymno» significa «nudo» e io, (nella relazione tra queste attività, ndr), ci vedo anche il mettere e il mettersi a nudo. Sicuramente poi la musica ha tutti gli elementi del gioco e del fare insieme le cose: per poter suonare insieme è obbligatorio educarsi ad ascoltare gli altri. Dispiace che abbia così poco spazio nella scuola e nell’educazione.
Quindi qual è lo sforzo più grande per fare il Suo lavoro?
Mi piace molto quella fiaba che si chiama I musicanti di Brema, da cui ho ricavato anche una canzone, che è un bellissimo esempio di come non sia il più forte a vincere ma chi sa unirsi nel mutuo appoggio; è un esempio anche dell’unione di giocosità e immaginazione, caratteristica della musica, che fa sì che un asino possa immaginarsi cantante. Tutto questo per dire che la musica richiede un lavoro di insieme e mettere insieme parole e suoni dipende tanto da un confronto. Quindi anche la musica è una storia d’amore.
La cura è oggetto costante dei propri pensieri, delle proprie attenzioni, del proprio attaccamento e, in una delle sue canzoni, una sua proposta per curare lo sgretolamento interiore e del mondo che viviamo è quella di trovarsi un bene rifugio. Qual è il suo?
Il bene rifugio è una canzone che nasce da una considerazione semplice: siccome tutto è definito dall’economia, a partire dai valori, che sono quelli delle merci, e poiché c’è continuamente crisi e inflazione, allora i beni rifugio sono i beni che non subiscono troppo la svalutazione. Mi sembra importante usare la parola «bene» non in termini economici, perché c’è qualcosa che va al di là dei valori economici e dello scambio, c’è qualcosa a cui noi stabiliamo di dare un valore, non il mercato. Quale sia il proprio bene rifugio ognuno lo stabilisce per sé ma credo che l’amore possa avere questa vocazione: è probabilmente uno dei rifugi più importanti, per chi ha la fortuna di vivere la relazione in una forma d’amore attiva. Bisogna però riconoscere che il rifugio è il luogo o la situazione in cui si riacquistano le forze non per sottrarsi alla realtà ma per affrontarla con più forza.
Vi ringrazio, il lavoro che fate voi è molto più importante del mio.
Credito fotografico immagine di copertina Jean Philippe Pernot