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Orione 26 - Solitudini - Mirella Paolillo

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Insegnare l’empatia

1 Settembre 2022
Quando la solitudine non farà più rima con marginalità sociale, etnica, culturale, economica, politica vivremo in una dimensione sana, dove saremo in grado di apprezzare la faccia buona della solitudine. Quella che si traduce in un tempo privato ed estremamente prezioso per ogni singolo essere umano.
Orione 26 - Solitudini - Mirella Paolillo

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Insegnare l’empatia

1 Settembre 2022
Quando la solitudine non farà più rima con marginalità sociale, etnica, culturale, economica, politica vivremo in una dimensione sana, dove saremo in grado di apprezzare la faccia buona della solitudine. Quella che si traduce in un tempo privato ed estremamente prezioso per ogni singolo essere umano.

14 domande.
Tante, ma non troppe per un tema complesso e che affascina da sempre filosofi, teologi, sociologi e poeti. 14 risposte puntuali, chiare, argomentate, che ci restituiscono un quadro completo del concetto di solitudine nell’era digitale. Non potevamo incrociare interlocutore migliore. Un giovane talento italiano, non solo qualificato ma anche calato a pieno nell’era digitale e quindi consapevole di cosa viviamo, sia da un punto di vista scientifico che umano. Ecco come ci spiega la solitudine digitale Mirella Paolillo, sociologa dei processi culturali e comunicativi, giornalista e docente di Teorie e tecniche della comunicazione presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e di Etica della comunicazione Sociologia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.

Partiamo dal concetto generale di solitudine.
La solitudine è una condizione esistenziale: per quanto ci sforziamo di interagire con gli altri, siamo irrimediabilmente racchiusi nella nostra solitudine. Tuttavia, il sentirsi soli, condizione psicologica, è cosa diversa dall’esser soli, condizione sociologica che ha a che fare con le nostre relazioni con il mondo esterno.

Esiste una solitudine buona?
“La solitudine può portare a forme straordinarie di libertà”, come recita Fabrizio De André. È un tempo estremamente prezioso; è un sentimento ma è anche un’abilità. Significa capacità di raccoglimento, di ascoltare il proprio silenzio, misurarsi con le parti più intime di se stessi e favorire la capacità di decidere cosa tenere e cosa lasciare andare. 

Quindi una condizione quasi imprescindibile?
Certo. Pensiamo agli artisti che hanno sempre bisogno di uno spazio per connettersi con il proprio intuito. Certo, è anche faticosa e a volte ineluttabile. Come scrive Pasolini, «bisogna essere molto forti e godere di buona salute per amare la solitudine». 

Il progresso è il frutto che ci ha avvelenato?
La solitudine è un prodotto della modernità. La questione nasce dall’osservazione della vita quotidiana nelle metropoli di fine dell’Ottocento, all’indomani della Rivoluzione Industriale. Marc Augé definisce non-luoghi gli spazi anonimi delle nostre città, attraversati freneticamente da folle di individui che non stabiliscono relazioni, che si incrociano senza mai incontrarsi. 

Come si spiega tanta solitudine in un mondo così “affollato” di persone e impegni? 
L’uomo moderno è un eremita di massa, come lo definisce Gunther Anders, isolato davanti a uno schermo, incapace di instaurare relazioni profonde e autentiche. La solitudine nasce dall’anomia e dalla mancanza di solidarietà che contraddistingue la società liquida, fatta di legami deboli basati essenzialmente su scambi economici e conflitti sociali.

Veniamo all’era della rivoluzione digitale.
Siamo passati da una società organizzata in modo verticalistico a una società in rete, caratterizzata da sistemi complessi performativi e in continua evoluzione, capaci di creare nuove prossimità spaziali e temporali ed aumentare le opportunità di interagire con il mondo. 

Cosa ha generato questa incessante comunicazione attraverso il web?
Con Internet e i social network costruiamo la nostra riflessività in modo interconnesso, definiamo la nostra identità a partire dalle relazioni con gli altri e tessiamo reti sociali su misura, sempre più coerenti con il nostro modo di essere. D’altro canto, siamo “insieme ma soli”, come nota Sherry Turkle.

Cosa significa “insieme ma soli”?
Tendiamo sempre più a fuggire dalle relazioni dirette, che sono complesse e impegnative, e a preferire le comunicazioni mediate, che ci permettono di risparmiare ciò che oggi abbiamo di più prezioso: tempo ed energie.

Dipendiamo dalla tecnologia perché ci sentivamo soli o siamo diventati più soli a causa dell’abuso della tecnologia?
Non preferisco usare i termini “abuso” e “dipendenza” riguardo il nostro modo di abitare la rete. Tendiamo a confondere la solitudine con l’isolamento. È quest’ultimo che è la causa di molti disagi psicologici e sociali, che certamente le tecnologie digitali hanno amplificato. Pensiamo alla nomofobia (stato d’ansia quando non ci si può connettere o utilizzare lo smartphone) o alla sindrome Hikikomori, l’isolamento negli schermi che i giovani sperimentano a causa del senso di impotenza e fallimento rispetto ad aspettative di famiglia e società.

Che ruolo giocano quindi i dispositivi tecnologici?
Sono strumenti e in quanto tali non possono essere giusti o sbagliati, ma possono essere usati bene o male. Durante la pandemia si sono rivelati una straordinaria risorsa. La mancanza di questi beni ormai primari determina l’esclusione dell’individuo dalla società, con forti ripercussioni socio-economiche e culturali. Quello del digital divide è un tema cruciale e ancora aperto. 

Intanto incombe l’ombra del Metaverso. Vivremo una vita virtuale tra dieci anni? 
Il Metaverso è e sarà un’evoluzione della nostra online social experience. Si tratta di contenuti che possono essere fruiti in modo più fluido, attivo e dinamico, attraverso la gamification, da amici reali e virtuali che condividono passioni comuni. Sarà il nostro nuovo modo di abitare la rete, ma non sostituirà la realtà. L’uomo è un animale sociale, che ha bisogno del suo branco per vivere. E credo che questo non cambierà.

Quanta solitudine vede nei suoi studenti? 
Non ne vedo tanta, anche se i miei studenti sono universitari con gran parte della personalità già formata. La fase più delicata è quella adolescenziale, in cui il processo di costruzione identitaria è ancora pienamente in atto e legato alle dinamiche relazionali in rete. Da un lato, cyberblullismo, sexting, revenge porn e tutti i rischi che si celano dietro l’uso della rete; dall’altro, web reputation, competizione, desiderabilità sociale, ricerca continua di conferme da parte dei pari. Sono argomenti delicati che non è possibile derubricare, come spesso si fa nel dibattito pubblico, a mere distorsioni dell’uso della rete.

A che società dovremmo aspirare per vivere di una sola solitudine, quella sana?
A una società in cui solitudine non faccia rima con marginalità. Marginalità sociale, etnica, culturale, economica, politica. La dissoluzione di quelli che Georg Simmel chiamava gli “a-priori” della società — famiglia, chiesa, partito, vicinato — lascia l’individuo solo, slegato dalla comunità di appartenenza, privato delle coordinate culturali per orientarsi nel mondo, che percepisce sempre più caotico. La solitudine amplifica la paura e la paura è la leva di cui il potere costituito si serve per la manipolazione delle coscienze individuali e collettive.

Lei crede di essere più sola nell’era digitale?
Personalmente mi piace la solitudine, ci sto bene, mi permette di pensare, di lavorare, di organizzarmi, di scandire il tempo. Talvolta ne sento anche il peso, ma credo che questo dipenda dal mio carattere molto riservato, che mi impedisce di condividere facilmente con gli altri le mie emozioni e i miei sentimenti. Ma le emozioni e i sentimenti, non a caso, sono un linguaggio universale. Quando siamo connessi con il nostro mondo interiore aumenta anche la nostra empatia, dal greco en-pathos, sentire dentro, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, percependone sensazioni, motivazioni, pensieri anche in assenza di segnali e simboli riconosciuti dalla cultura comune. Per Edith Stein, allieva di Husserl, «l’empatia è l’esperienza che fonda e rende possibile la comunicazione intersoggettiva e apre l’Io alla dimensione comunitaria pur mantenendo la sua irriducibile libertà ed autonomia».  L’empatia, dunque, come la solitudine, è una vera e propria abilità sociale di fondamentale importanza, che va appresa e insegnata. 

per citare questo articolo

Manuela Giuliano:

Insegnare l’empatia,

n. 26 - Solitudini,

settembre-dicembre 2022

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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In Preludio a un bacio di Tony Laudadio, Emanuele racconta in prima persona la sua storia dolcissima, complicata e anche un po’ surreale. Emanuele è un barbone, un musicista solo che, per mantenersi, suona agli angoli delle strade, facendo innamorare i passanti della sua musica.