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Di comunità, arche e orti

1 Settembre 2022
Per capire la natura della solitudine, invocata unanimemente come male oscuro del terzo millennio, dobbiamo ricondurla al contrario con cui si co-determina: la vita di comunità, che ci è stata consegnata dalla storia universale come unica via possibile allo sviluppo delle società umane.
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Di comunità, arche e orti

1 Settembre 2022
Per capire la natura della solitudine, invocata unanimemente come male oscuro del terzo millennio, dobbiamo ricondurla al contrario con cui si co-determina: la vita di comunità, che ci è stata consegnata dalla storia universale come unica via possibile allo sviluppo delle società umane.

Per capire la natura della solitudine, invocata unanimemente come male oscuro del terzo millennio, dobbiamo ricondurla al contrario con cui si co-determina: la vita di comunità, che ci è stata consegnata dalla storia universale come unica via possibile allo sviluppo delle società umane. Cos’è una comunità? Essenzialmente quattro cose, tutte contenute nei significati della parola latina munus:
— una gestione corresponsabile e condivisa del patrimonio di beni comuni (il cum-munus) dei quali ciascuno deve prendersi cura nei propri offici;
— un gioco di pesi costituito da obblighi reciproci;
— una condizione di debito che sancisce l’incompletezza del singolo;
— un’economia basata sul dono-da-dare.
Le comunità sono soggette ad una sorta di fisica analoga a quella cosmologica, vivendo in equilibrio fra la dimensione dell’individuo e la sua appartenenza alla collettività. Probabilmente, oltre certi limiti le forze fondamentali in gioco si sfilacciano e le comunità si disgregano collassando su se stesse. Se il territorio finisce col coincidere con l’intero pianeta, come sta accadendo alla società globalizzata, l’equilibrio si rompe. Ciò ha sancito la fine dei confini; ma i confini definiscono appunto le comunità. L’individuo scivola allora dall’essere parte di un organismo ben definito al coacervo indistinto delle masse. È la crisi delle identità. È anche la fine delle metanarrazioni — come avvertì Lyotard, sostituite da tante, piccole narrazioni. Qui, alla presunta unificazione dell’umanità sotto l’egida del mercato corrisponde la moltiplicazione delle verità fino al loro superamento ad opera della post-verità, dovuta a una realtà troppo complessa per consentire all’uomo di farne un’esperienza diretta. Egli, così, nella crisi del significato si scopre più solo. Questa forma di solitudine ci conduce per mano a ciò che Francis Fukuyama chiama crisi della fiducia, un sentimento pensabile solo all’interno di una trama di relazioni e interdipendenze di tipo comunitario. Essenzialmente, la seconda metà del Novecento ha liberato l’uomo contemporaneo dai vincoli sociali propri delle comunità tradizionali (e dalle narrazioni metafisiche, ovviamente); un processo che avrebbe dovuto renderci più felici e che, invece, ha finito per spaventarci. È la tesi espressa da Fromm nel lontano 1941: siccome la libertà ci obbliga a prendere decisioni e le decisioni comportano rischi, finiremo col sottometterci nuovamente all’autorità, che ci solleva da quest’angoscia (l’angoscia della solitudine nella sua dimensione adulta e finanche eroica).

Per usare le parole di Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, siamo preda di un’ansia da libertà. Riassumiamo: la perdita di punti di riferimento ci ha resi più liberi, ma la libertà nel mondo indistinto della globalizzazione ci ha fatto scoprire una nuova, subdola forma di impotenza. È da questa serie di processi che nasce la nostra solitudine postmoderna; una solitudine dello stare insieme senza essere legati gli uni agli altri perché, nel frattempo, si è indebolita la nostra capacità di ascoltare (la fine dei vincoli sociali tradizionali potrebbe rivelarsi, a conti fatti, una crisi dell’empatia). Un correlato dell’impotenza di fronte alla libertà è la noia. A essa l’uomo postmoderno reagisce drogandosi di amusement, termine con cui Horkheimer e Adorno definiscono tutte le forme di intrattenimento offerte dall’industria culturale. È come se una mano invisibile ci afferrasse il braccio per — letteralmente — trattenerci dentro al luna park dei contenuti televisivi o digitali; più ci rimaniamo, più cediamo quote crescenti del nostro tempo di vita. Siccome la durata di quest’ultimo ci è ignota, l’incertezza che ne deriva è massima e questo ci costringe ad attribuire a quell’incognita un valore inestimabile. Inoltre, i social ci portano in una dimensione contraddittoria: di iperconnessione delle menti a cui corrisponde un isolamento dei corpi che ci depriva della relazione integrale con l’altro e con l’ambiente. Un divide et impera contemporaneo, su cui Foucault avrebbe molto da dire, credo. La contropartita del nostro tempo ceduto è l’aumento dei fatturati dei produttori e distributori dei contenuti. Un’emorragia del sangue dalle vene dei molti alle arterie di pochi, il cui esito è di trattenerci indefinitamente sulle giostre. Sfortunatamente, non possiamo più permetterci di accettare questa dinamica tipica del neoliberismo in un’epoca nella quale i processi distruttivi che interessano il pianeta (crisi delle fonti primarie, crisi alimentare, crisi ambientale, guerre, ingiustizie sociali eccetera) subiscono un’accelerazione tipica delle fasi di collasso. Insomma: proprio ora che abbiamo bisogno di correre, ci si chiede di rimanere in un eterno presente: quello dei social media. È l’effetto della memoria digitale. Come afferma il filosofo Luciano Floridi: «Le ICT non stanno conservando il passato per metterlo a disposizione del futuro». Quest’opera di conservazione è stata lo sforzo costante di tutta la storia dell’umanità: archivi, biblioteche, memorie orali e competenze empiriche sono stati selezionati, ricopiati, ripetuti e trasmessi per millenni come dono di comunità alle generazioni venture, perché il futuro delle società è il frutto di un’opera collettiva. Improvvisamente, tutto questo si sta interrompendo nel volgere di una generazione; i device digitali ci trattengono continuamente, distraendoci dalle relazioni e dagli scambi che, in modo sano, potremmo portare anche nell’infosfera.

La solitudine non produce futuro poiché è una sorta di smarrimento del soggetto nel presente, e del presente stesso. Urge quindi ricostruire il ponte intergenerazionale che ci ha consentito di non ricominciare da capo a ogni pestilenza o caduta di un impero. Urge combattere quelli che, in una teologia laica, potremmo chiamare i diáboloi, i separatori che ci isolano gli uni dagli altri rendendoci masse di monadi: i contenuti senza più un messaggio nella sezione Video di Facebook; le celebrity il cui tempo libero (che libero non è, essendo inserito in un meccanismo di produzione) paghiamo con il nostro; la desertificazione dei luoghi di aggregazione, l’estinzione delle associazioni, dei club e delle bande di paese e tutti gli altri fenomeni che realizzano la cosiddetta solitudine di massa (questi esempi sono stati fatti recentemente da alcuni sociologi francesi intervistati da Le Monde). A cosa dovrebbe servire tutto questo? Forse non a fermare quei processi distruttivi di cui sopra, come temuto cinquant’anni fa, ma a riunire tutte le generazioni in un grande sforzo di raccolta e sistematizzazione dei saperi utili per consegnare al futuro un’Arca delle conoscenze dalle quali ricostruire una nuova idea di umanità, lontana dagli errori che non abbiamo smesso di collezionare negli ultimi secoli di storia. Non dobbiamo smettere di lottare affinché le cose cambino, ma dobbiamo anche iniziare a lavorare per le crisalidi che verranno dopo di noi, nel momento in cui inizieranno finalmente a rompere il bozzolo di una nuova era. E se anche non potremo consegnare ai nostri pronipoti un orto da coltivare, potremo almeno lasciare loro un manuale di agronomia e un capanno con gli attrezzi da lavoro. Li aspetteranno nuove comunità da creare, proteggere e nutrire nella continua rammemorazione di cos’è stato il passato affinché possano imboccare nuove strade evitando di ripercorrere quelle che ci hanno condotto a scivolare nel baratro dell’autodistruzione.

BIBLIOGRAFIA

Rapporto sui limiti dello sviluppo, nelle sue aggiornate elaborazioni:

Ugo Bard: The Limits to Growth Revisited — 2011

per citare questo articolo

Francesco Panzetti:

Di comunità, arche e orti,

n. 26 - Solitudini,

settembre-dicembre 2022

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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In Preludio a un bacio di Tony Laudadio, Emanuele racconta in prima persona la sua storia dolcissima, complicata e anche un po’ surreale. Emanuele è un barbone, un musicista solo che, per mantenersi, suona agli angoli delle strade, facendo innamorare i passanti della sua musica.

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Quando la solitudine non farà più rima con marginalità sociale, etnica, culturale, economica, politica vivremo in una dimensione sana, dove saremo in grado di apprezzare la faccia buona della solitudine. Quella che si traduce in un tempo privato ed estremamente prezioso per ogni singolo essere umano.