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Un quadro generale

14 Giugno 2022
L’esperienza della solitudine è altamente soggettiva: un individuo può essere solo senza sentirsi solo e può sentirsi solo anche quando è con altre persone.
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Un quadro generale

14 Giugno 2022
L’esperienza della solitudine è altamente soggettiva: un individuo può essere solo senza sentirsi solo e può sentirsi solo anche quando è con altre persone.

PREMESSA

Maddalena Illario

La solitudine viene intesa come una sensazione soggettiva negativa di mancanza o perdita di relazioni significative e rappresenta una preoccupazione crescente per la salute pubblica, sia in riferimento alla popolazione anziana, ma anche ad altri gruppi di popolazione molto più giovane. I livelli di solitudine degli individui in genere rimangono più o meno costanti durante l’età adulta fino ai 75-80 anni di età, quando aumentano leggermente. La solitudine è diversa dall’isolamento sociale e può associarsi a gravi conseguenze negative per la salute, come l’aumento del rischio cardiovascolare, la riduzione del sonno, i problemi di salute mentale come depressione, ansia e comportamento suicidario, declino cognitivo e adozione di abitudini di vita non salutari, come fumo e alcol, e contribuisce ad aumentare i ricoveri in ospedale. D’altra parte, la partecipazione sociale è stata positivamente associata a una migliore salute e qualità della vita, capace di contrastare depressione, scarso supporto sociale, nevrosi e introversione che si accompagnano alla solitudine prolungata. In molti Paesi ridurre la solitudine è quindi una priorità per migliorare la salute di tutti i gruppi di popolazione, soprattutto delle persone anziane. Per contrastare la solitudine sono state implementate diverse strategie comportamentali sociali, quali l’interazione con la famiglia e gli amici, l’esercizio fisico, la formazione cognitiva come terapia cognitivo comportamentale, esercizi di gruppo e attività artistiche, attività individuali come il giardinaggio o la meditazione. La maggior parte degli studi rivolti alla solitudine emotiva e a quella sociale utilizza attività svolte di persona, ma esistono evidenze che le tecnologie possano supportare il coinvolgimento della famiglia e altri soggetti migliorando i contatti e le attività sociali, laddove le attività in presenza risultino difficili per un motivo o un altro. In una recente indagine, la percentuale di soggetti in EU che hanno riferito una sensazione di solitudine oscillava pre-pandemia dal 4.6 in Olanda, al 20.8 in Grecia (Loneliness in European Union Policy Brief — 2020), con l’Italia al 13.9. Dopo la pandemia questi numeri sono saliti al 16.8 e 29.3 rispettivamente, con l’Italia al 25.9. Tali dati evidenziano la necessità di affrontare, in maniera efficace, la solitudine e l’isolamento sociale, perché essi non sono solo dannosi per la salute mentale e fisica, ma possono anche determinare conseguenze significative per la coesione sociale e la fiducia della comunità. Non esiste una soluzione ideale adatta a tutti i contesti e per questo sarà necessario investire in ricerca ed innovazione, supportando al contempo lo scambio di buone pratiche innovative.

LONGLIFE COURSE PER CONTRASTARE LA SOLITUDINE DEL TERZO MILLENNIO 

Arianna Glorioso, Vincenzo De Luca, Girolamo Laudanna, Giovanni Tramontano

Una panoramica sul tema della solitudine, ora definita in termini di salute pubblica, fa riflettere sulla moltitudine di aspetti che caratterizzano l’evento scatenante: le fasi di vita in cui è più presente, il legame con la sofferenza e l’esperienza positiva che ognuno di noi può trarne. L’obiettivo di questo focus è, dunque, sensibilizzare la comunità sanitaria e sociale sulla necessità di conoscere il fenomeno e le sue sfumature, per contrastare vissuti psicologici e fisici dannosi per la salute. Riconoscerla come condizione umana inscindibile dall’uomo, permette di sperimentare relazioni significative e abitare congruente la propria vita interiore fino alla capacità di realizzarsi nella relazione. Dunque, quanto più è forte l’esperienza della solitudine, tanto più forte è la possibilità di vivere con l’altro. Quest’esperienza ci mette in condizione di non eludere i temi cruciali dell’umano: la colpa, la libertà, l’incontro, la fede, l’angoscia. Temi questi fondamentali per la propria individuazione. E individuazione è anche separazione, dolore, caduta nel mondo. In un mondo nel quale il richiamo della massa è progressivamente più imperioso e spersonalizzante, la solitudine resta l’unica possibilità per difendere le diverse intensità della propria individualità proporzionali al desiderio di intimità personale. Ciò non solo non esclude l’esperienza l’esperienza della comunità, ma in diversi casi può persino rafforzare l’impegno comunitario rendendo più forte il senso di appartenenza. Sarebbe auspicabile esplorare anche gli aspetti positivi per restituire alla solitudine il suo significato di fenomeno profondamente umano che si innesta sul concetto di tras-formazione dell’essere umano fino alla fine della sua vita. 

Quando si parla di invecchiamento si fa spesso riferimento al graduale declino fisiologico connesso al processo di invecchiamento. Così facendo si tende a evidenziare aspetti legati alla perdita o al progressivo peggioramento delle abilità e stato di salute dell’individuo. Se da un punto di vista culturale l’aumento dell’aspettativa di vita rappresenta un traguardo importante, dall’altro lato è necessario che le istituzioni riescano a gestire in maniera adeguata le richieste provenienti da questa parte di popolazione. A tal proposito è necessario nominare il rapporto pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 denominato Active Ageing: A Policy Framework, in cui si definisce il concetto di Invecchiamento Attivo come un “processo di ottimizzazione delle opportunità per la salute, la partecipazione e la sicurezza al fine di migliorare la qualità della vita delle persone che invecchiano” (WHO, 2002). In questo caso l’aspetto dell’attività fa riferimento alla possibilità da parte dell’anziano di continuare a essere parte attiva della società. Affinché ciò si verifichi, è necessario curare il rapporto tra individuo e società a partire dalla parte precedente della vita dell’individuo. È favorendo un ambiente salutare e partecipativo sin dall’inizio che si pongono le basi per lo sviluppo di un’età senile attiva. 

LA SOLITUDINE DELL’ANZIANO 

Graziella Milan, Caterina De Falco

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera. 

Salvatore Quasimodo

La pandemia da Covid-19 ha acceso i riflettori sull’universo della senilità, e lo ha fatto nella maniera peggiore, facendo emergere le difficoltà e i bisogni inespressi delle persone anziane. Ha fatto emergere l’urlo silenzioso di tanti, che nella geriatria hanno creduto e che hanno ricordato come le necessità della popolazione anziana siano quantitativamente e qualitativamente importanti e debbano ricevere attenzione e cura. Le persone anziane non sono solo dei malati, per quanto siano attenzionati solo quando bisogna stanziare risorse per assisterli; sono invece un patrimonio difficile da gestire e da curare, ma ricco di potenzialità e di stimoli, un po’ come le bellezze architettoniche dei nostri centri storici. La complessità delle persone anziane viene descritta come fragilità, un termine che racchiude un caleidoscopio di problemi e di necessità, ma anche di risorse. Questo termine, inquietante forse, ha permesso di caratterizzare la medicina della geriatria, perché ha dato una prospettiva nuova alla visione della senilità. La fragilità dell’anziano è oggetto di studi e di ricerche e di grande attenzione perché l’invecchiamento demografico nei prossimi anni porterà a una popolazione sempre più senile e sempre più bisognosa di interventi. Nello stesso tempo, però, la condizione di anziano fragile racchiude nel suo concetto due significativi aspetti: quello di essere uno strumento di allarme e quello di guardare la persona anziana in una visione olistica. Avere la possibilità di inquadrare la persona anziana con strumenti che intercettino le criticità e i bisogni, ma anche le potenzialità residue che possono essere sostenute e riabilitate, significa guardare all’anziano in maniera propositiva e con una prospettiva di medicina di iniziativa. La fragilità, se è pur vero che ricerca le condizioni di rischio che potenzialmente potrebbero evolvere verso la disabilità, si pone comunque l’obiettivo di trovare quanto ancora c’è di buono e quali siano i punti di forza sui quali agire per mantenere più a lungo le autonomie ed allontanare la non autosufficienza. Gli strumenti di valutazione delle condizioni della persona anziana hanno come principio operativo la Valutazione Multidimensionale. Quest’ultima, come è nella sua stessa definizione, considera tutti gli aspetti del soggetto, sia in termini di risorse che ancora possiede che di criticità. Nello stesso tempo non valuta solo la malattia singola, non solo la compartimentazione in organi e in problemi clinici e farmacologici, ma guarda l’anziano in un approccio olistico. Sposta l’ottica di osservazione dal binomio malattia-cura a quello del prendersi cura della persona anziana. Questo modo, apparentemente semplice, nasconde una profonda complessità nelle modalità operative e un approccio in team. Non è il singolo problema clinico o organicistico, ma tutto l’insieme della persona che viene considerata con i suoi problemi e soprattutto con le sue risorse umane, sociali, psicologiche, cognitive e cliniche. Non un singolo operatore e/o specialista (cardiologo, neurologo e tutti gli altri), ma una squadra che lavora insieme per il benessere, per lo stato di salute globale del proprio assistito. I problemi dell’anziano, come le sue risorse, vengono affrontati nella loro interazione e nei loro effetti di insieme, in un modo olistico e propositivo. In questo contesto si inserisce anche l’attenzione alle fragilità emotive, sociali e psicologiche dell’anziano, che tanto hanno inciso in questo periodo di pandemia Covid-19. La solitudine e il senso di smarrimento, che la pandemia ha innescato si sono inseriti in maniera devastante su un tessuto fertile di insicurezza già presente, provocando effetti che ancora si dovranno pesare e che per molto tempo continueranno a sentirsi. Il senso di solitudine e di isolamento sociale e tutto l’indotto emotivo negativo che scatena nella persona anziana, viene considerato da molti autori come uno dei principali fattori di rischio per il peggioramento delle condizioni di salute ed anche di exitus. Il peso della solitudine sull’insorgenza di nuove malattie e sul peggioramento delle condizioni già note è considerato analogo a quello di fattori come il tabagismo, il consumo di alcol e l’obesità, il cui ruolo è acclarato e noto nello sviluppo di neoplasie, epatopatie e aterosclerosi. Studi osservazionali hanno rilevato che la solitudine e l’isolamento sociale conseguente sono responsabili di un progressivo peggioramento delle condizioni cognitive, con performance ai test neuropsicologici peggiori rispetto a soggetti controllo, che invece possedevano una rete sociale di accudimento e di supporto. Secondo il Report del 2022 della Lancet Commission per Dementia prevention, intervention, and care, che ha analizzato i fattori di rischio per lo sviluppo di varie forme di demenza, l’isolamento sociale e la conseguente solitudine che ne derivano, incidono per il 4% sui casi globali di demenza. Ed è veramente drammatico pensare che tra i fattori di rischio per demenza individuati dalla Lancet Commission (bassa scolarità, ipertensione arteriosa, deficit uditivo, fumo, obesità, depressione, inattività fisica, diabete, isolamento sociale, uso eccessivo di alcol, trauma cranico e l’inquinamento dell’aria), tutti quelli che sono potenzialmente presenti nella condizione di un soggetto anziano solo, quali ad esempio l’inattività fisica, la depressione, ed anche l’ipoacusia come deprivazione sensoriale, sommati insieme raggiungono un valore ben del 18%. Considerando che nel mondo secondo la World Health Organization si prevede che i casi di demenza saranno 78 milioni nel 2030 e ben 139 milioni nel 2050, riuscire ad abbattere il rischio di svilupparla anche del solo 4% dell’isolamento sociale comporterebbe già forse numeri davvero cospicui. La depressione, l’apatia e l’anedonia secondarie alla solitudine, oltre a peggiorare lo stato clinico e cognitivo, hanno anche un ruolo determinante nell’ incremento dell’utilizzo di farmaci neuropsichiatrici nell’anziano, quali ansiolitici e antipsicotici, con tutti i rischi che questi ultimi comportano. Il consumo di benzodiazepine utilizzate come ipnoinducenti e ansiolitici negli anziani in solitudine è sicuramente notevole e ha come effetto principale un aumento significativo del rischio di cadute, con conseguenti fratture di femore, a causa della confusione e dello stordimento che possono provocare al risveglio notturno e mattutino.

La solitudine dell’anziano è inquietante non solo per i risvolti di sanità pubblica ed economici, ma anche perché è uno specchio dell’evoluzione della società. Una delle tante ricchezze dell’Italia dei piccoli borghi e delle piccole città, riconosciuta anche questa da lavori scientifici, è la presenza ancora forte di un welfare familiare e sociale. L’anziano continua a essere ancora accolto in famiglia, finché è possibile, viene di rado e quasi mai istituzionalizzato anche quando diventa non autosufficiente. Rappresenta una risorsa sociale per la cura dei nipoti e, tante volte, anche economica. Studi sui centenari, sulla dieta mediterranea e sul mondo rurale hanno dimostrato che un universo di vita di piccole dimensioni e di abitudini semplici protegge dalla aterosclerosi, dalle malattie cerebro e cardiovascolari e dalla demenza e porta ad inaspettati livelli di longevità. Le blue zones dell’epidemiologo italiano Gianni Pes e del demografo belga Michel Poulain sono territori individuati in tutto il mondo, in Italia ad esempio in Sardegna nell’Ogliastra, dove l’epigenetica ha prodotto come effetto finale una inspiegabile longevità, caratterizzata da condizioni di salute, di autosufficienza e di conservazione delle capacità cognitive non comuni. 

C’è da chiedersi, noi anziani di domani, abitanti delle nostre frenetiche città, con figli che troveranno lavoro lontano da noi, senza il profumo della terra e della campagna nei ricordi, di che solitudine vivremo? La risposta è difficile, forse persa nel vento.

IL RUOLO DELLO PSICOLOGO PER L’ANZIANO NELLE CURE DOMICILIARI

Keoma Colapietro

Secondo John Cacioppo, dell’Università di Chicago, la solitudine è uno stato emotivo negativo che si sperimenta quando è presente una discrepanza tra le relazioni che si desidererebbe possedere e quelle che si percepisce di avere nella realtà. Per l’autore, tale condizione non attiene tanto la quantità di tempo spesa con le altre persone, quanto la qualità delle relazioni stesse. La solitudine è una condizione di vita dolorosa di molte persone, in particolar modo anziane, e impatta profondamente sulla salute fisica e psicologica, portando spesso ad esiti drammatici. Solitudine e isolamento sociale sono spesso associati a una riduzione della durata della vita simile a quella provocata dal fumo di 15 sigarette al giorno, con un aumento del 27% del rischio di mortalità prematura (Murthy, 2017). Instaurare relazioni solide porterebbe, invece, a un ridotto rischio di mortalità (Holt-Lunstad et al., 2017). La solitudine influisce sulla salute mentale, costituendo un fattore di rischio per lo sviluppo della depressione. Depressione dell’anziano e solitudine, quindi, risultano essere due aspetti collegati tra di loro. Uno studio dell’Università della Calabria dimostra la relazione tra supporto sociale, solitudine e depressione. I ricercatori dello studio, definendo il supporto sociale, distinguono tra supporto sociale oggettivo, ovvero l’aiuto concreto che viene elargito da familiari e amici a un anziano, e supporto sociale soggettivo che, prendendo in considerazione l’aspetto emotivo del supporto, pone l’accento sull’importanza dell’appartenenza al gruppo e la percezione dell’affetto e del supporto fornito dal gruppo stesso. La mancanza di un supporto sociale può essere causa di insoddisfazione di bisogni relazionali primari, portare a solitudine e quindi a depressione. Secondo un rapporto ISTAT del 2018, circa il 40% degli ultrasettantacinquenni non ha nessuno a cui rivolgersi in caso di bisogno. Diverse ricerche dimostrano come tale condizione sia associata anche ad altre patologie quali l’ansia sociale, il disturbo ossessivo compulsivo e disturbi neurocognitivi. La solitudine comporta anche conseguenze negative per la salute fisica, come ipertensione, disturbi del sonno e deficit del sistema immunitario. Un interessante studio ha dimostrato  la relazione tra solitudine e demenza, in soggetti cognitivamente sani, l’associazione tra livello di solitudine percepita e la presenza di placche beta-amiloide (biomarcatore del Morbo di Alzheimer). Dai risultati è emerso che le persone positive alla beta amiloide si sentivano 7,5 volte più sole rispetto a chi era risultato negativo alla proteina. L’emergenza pandemica ha fatto emergere fortemente il bisogno di sensibilizzare la popolazione sulla solitudine degli anziani, in particolar modo di quelli istituzionalizzati. A causa dell’emergenza Covid-19, infatti, le strutture di assistenza si vedono costrette a dover nuovamente negare le visite dei familiari ai loro cari. Già durante il primo lockdown erano insorte negli ospiti una serie di sintomatologie quali: agitazione, insonnia, ansia, disturbi dell’alimentazione e del sonno, delirium, sarcopenia e conseguenti difficoltà di deambulazione (Bianchetti et al., 2020; Cagnin et al., 2020). Questi dati fanno sicuramente riflettere sulla drammaticità del periodo che stiamo vivendo e sulla comprovata influenza dell’isolamento sociale sulla salute. Nel corso degli ultimi anni sono nate diverse iniziative volte ad arginare la solitudine. Un esempio è il co-housing, ovvero la convivenza di più anziani rimasti soli o senza una adeguata rete sociale in appartamenti che possono prevedere l’assistenza da parte di alcuni operatori sociosanitari. Altro esempio è il modello della Dementia Friendly Community, vere e proprie cittadine adattate all’anziano con decadimento cognitivo. Obiettivo principale di queste comunità è lenire la solitudine dell’anziano fragile, rispondendo ai suoi bisogni psicologici e offrendo una solida rete sociale. In questo contesto la persona malata può sentirsi compresa, rispettata, inclusa e coinvolta nella vita di comunità, con possibilità di scelta e controllo sulla propria vita. Infine, quando si parla di solitudine è bene considerare anche quella vissuta dai caregiver familiari, totalmente sopraffatti dalle cure rivolte al proprio familiare da compromettere la propria salute fisica e mentale, la propria situazione lavorativa e sociale.

Una iniziativa di sostegno psicologico, informazione e supporto sociale ai caregiver molto diffusa è l’istituzione dei Caffè Alzheimer, incontri generalmente mensili rivolti ai caregiver di persone affette da demenza durante i quali un professionista tratta un argomento specifico legato alla malattia e alla sua assistenza e i caregiver possono scambiarsi consigli, supportarsi a vicenda e fare rete.

UN TRAMONTO DA OSSERVARE

Giuseppe Auriemma 

Dicono che la vecchiaia è l’età del tramonto. 
Ma ci sono tramonti che tutti si fermano a guardare. 

Anonimo

Il vissuto della solitudine nell’anziano spesso si associa a depressione, che rappresenta un fenomeno complesso, sia perché, più ancora che nella depressione dell’adulto, interagiscono nella sua patogenesi fattori biologici, psicologici e socio-ambientali, sia perché molto spesso il paziente anziano è un paziente complesso, nel quale la presenza di una o più patologie somatiche e di un fisiologico deterioramento cognitivo rende l’approccio terapeutico particolarmente delicato. Essa rappresenta il disturbo mentale più comune nella vecchiaia, è associata a incremento di insorgenza di malattie fisiche, ad una peggior prognosi di quelle già presenti e ad aumento di mortalità e di utilizzo di risorse sanitarie. La depressione diviene più frequente al variare dell’ambiente di vita della persona anziana, raggiungendo la maggior frequenza nelle case di riposo. I segni e i sintomi di tale forma vengono spesso sottovalutati e giudicati compatibili con il normale processo di invecchiamento. Caratteristiche di tale quadro depressivo sono la tendenza alla somatizzazione con preoccupazioni di tipo ipocondriaco che possono assumere carattere delirante; essa si presenta come la seconda causa di malattia nel mondo dopo le patologie cardiovascolari. La depressione maggiore è al nono posto tra le patologie più comuni in medicina generale e si associa a polipatologie nell’88% dei casi. In Italia un suicida su tre ha oltre 70 anni. Ma la depressione non è una conseguenza inevitabile della vecchiaia. L’inquadramento diagnostico della depressione nell’anziano è spesso ostacolato dal pregiudizio che un ridotto tono dell’umore accompagni il normale processo dell’invecchiamento. Allo stesso modo del dolore, l’anziano e il suo caregiver accettano con difficoltà il problema, ancor più se gli sono proposti percorsi di cure specialistiche. Un altro problema d’interesse medico riguarda la classificazione diagnostica: frequentemente nel paziente geriatrico c’è maggiore difficoltà ad applicare i criteri del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), in quanto la sintomatologia predominante si caratterizza per la comparsa dei segni somatici, quali insonnia, dolore e iporessia. Inoltre, la depressione nell’anziano può essere accompagnata da deficit cognitivi. Il trattamento di prima linea prevede un trattamento farmacologico con antidepressivi associato a terapia cognitivo-comportamentale. Molto importanti sono i cambiamenti dello stile di vita, come consumare una dieta altamente nutrizionale, aderire ad un equilibrato ritmo sonno-veglia, fare attività fisica con cadenza giornaliera e mantenere una socialità attiva. Spesso l’età avanzata è legata a una disconnessione sociale, caratterizzata dalla scarsità di contatti con gli altri. Questa forma di isolamento sociale è indicata da fattori che hanno a che fare con la struttura del gruppo sociale di appartenenza (limitato, interazioni poco frequenti) e alla mancanza di partecipazione ad attività sociali e di gruppo. L’isolamento percepito, al contrario, riflette l’esperienza soggettiva della scarsità di interazione sociale e di risorse sociali. Questa percezione può essere caratterizzata da sentimenti di solitudine, di mancanza di supporto, di inadeguatezza percepita nei rapporti interpersonali. Entrambe le forme di isolamento sociale aumentano il rischio di avere problemi di salute mentale, come depressione e ansia. Nel contesto della pandemia COVID-19, molti anziani sono rimasti o rimangono tuttora in auto-isolamento o hanno limitato le loro interazioni sociali per scelta oppure perché hanno meno accesso a luoghi di socializzazione o perché non digitalizzati. Questa popolazione, già ad aumentato rischio di sintomi depressivi e di ansia in condizioni normali, è particolarmente colpita in questa situazione di pandemia con ripercussioni potenziali anche a lungo termine.

SOLITUDINI NEL TENTATO SUICIDIO: COME AFFRONTARLE? 

Valentina Busiello, Sara Diamare

La solitudine non è vivere da soli, 
a solitudine è il non essere capaci di fare compagnia
a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi. 

José Saramago

La solitudine è una condizione normale che fa parte della vita di ogni essere umano, ma questa può diventare causa di sofferenza quando si viene esclusi, o quando in maniera volontaria ci si allontana dagli altri. In psicologia, con il termine solitudine si vuole far riferimento a una sensazione che deriva dalla percezione soggettiva che le relazioni stabilite nel proprio ambiente non sono soddisfacenti; gli esseri umani ricercano costantemente connessioni profonde e significative, è un meccanismo di sopravvivenza che ci spinge a connetterci con gli altri. Colui che si sente sopraffatto dalla solitudine non riesce a raggiungere le connessioni che desidera e la sua unica scelta è isolarsi e di conseguenza avvertire un profondo senso di vuoto. La solitudine è in stretta relazione con la patologia psichica. Infatti, la scelta di isolarsi può avere origine in vari aspetti, come ad esempio: la paura di stare con gli altri, dove il rapporto con gli altri rappresenta un fobia; una paura paranoica, dove l’altro viene vissuto come un qualcuno che vuole fare del male, e la solitudine, è l’unica via di fuga; la paura dell’esistere. La solitudine psichica è un sentimento che può coesistere con numerosi quadri clinici, e può manifestarsi in disturbi affettivi come la depressione e l’ansia, in disturbi del comportamento alimentare, disturbi somatoformi o in disturbi quali la Schizofrenia e la Paranoia, e in disturbi di personalità quali lo schizoide o l’antisociale. Il sentimento di solitudine può accompagnare ed aggravare problemi di dipendenze quali quelle da alcol, da sostanze o da internet. Spesso l’essere umano si sente solo anche quando è circondato da affetti e da una forte rete sociale, ed è questo sentimento del sentirsi soli in mezzo agli altri che spesso accompagna il suicidio. Il suicidio è l’atto consapevole e volontario di infliggersi la morte, che prende origine da un vissuto interiore doloroso. Si tratta di un processo tortuoso dove sono presenti solo pensieri ed impulsi suicidi, ed è caratterizzato da messaggi più o meno impliciti che precedono l’atto. Questo percorso doloroso origina una situazione di malessere profondo, caratterizzato da sentimenti di abbandono, disperazione, vuoto, solitudine, che spingono la persona a voler porre fine alla sua disastrosa esistenza. In questa prima fase non c’è ancora l’intenzione, il suicidio è semplicemente pensato e viene visto come una possibile soluzione per porre fine ai sentimenti sopracitati. La fase fondamentale è quella dove vengono analizzati i pro e i contro dell’atto suicidario, e questa analisi porta la persona a voler concretizzare l’atto, ed è qui che la morte viene vista come unica soluzione, per porre fine ad una vita vissuta come insostenibile. Il suicidio è la dodicesima causa di morte nel mondo e si colloca fra le tre principali cause di morte per le persone di età compresa tra i 15 e i 44 anni, insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari. In Italia si registrano ogni anno circa 4000 morti per suicidio. Secondo i dati ISTAT dell’Indagine sulle cause di morte, nel 2016 nel nostro Paese si sono tolte la vita 3780 persone. Il 78,8% dei morti per suicidio sono uomini. Il tasso grezzo di mortalità per suicidio per gli uomini è stato pari a 11,8 per 100.000 abitanti mentre per le donne è 3,0 per 100.000. Infatti il suicidio è più diffuso tra gli uomini piuttosto che nelle donne: il suicidio in Italia rappresenta la seconda causa di morte tra i maschi di 15-25 anni, con un numero di vittime analogo a quello causato dai tumori (13% del totale) e inferiore solo a quello causato dagli incidenti stradali (35% del totale), tra le donne della stessa età, invece, la mortalità per suicidio si colloca al terzo posto nella graduatoria delle cause di decesso, con una proporzione analoga a quella delle malattie cardiovascolari (8% del totale) e preceduta soltanto dai decessi per tumori (26%) e dagli incidenti stradali (24%). Nel 2018, la National Action Alliance for Suicide Prevention (Action Alliance) ha pubblicato le linee guida per gli standard raccomandati per i pazienti a rischio di suicidio, che sono qui riportate:
— impiegare una risposta premurosa;

— fornire interventi brevi (come pianificazioni della sicurezza e consulenza sui mezzi letali);

— comunicare con la famiglia e gli amici intimi del paziente;

— indirizzare il paziente alle cure appropriate.
Attualmente, questi passaggi risultano fondamentali per ridurre il rischio di suicidio e salvare vite. Essendo il suicidio, spesso e volentieri, mosso da un senso di abbandono e solitudine percepita, sarebbe senza dubbio proficuo coinvolgere nell’intervento terapeutico la famiglia e la rete sociale del paziente, proprio per abbattere le convinzioni erronee del paziente sulla sua presunta solitudine. Una metodologia che coinvolge i familiari e la rete sociale, è largamente diffusa in Finlandia nel trattamento della Schizofrenia, ed è l’Open Dialogue Approach. L’obiettivo di questo metodo innovativo è aiutare le persone e i loro familiari a sentirsi ascoltati, rispettati e valorizzati. È un sistema di cura basato sulla comunità e su una conversazione terapeutica che si realizza durante riunioni di cura organizzate da équipe mobili di intervento in caso di crisi. L’introduzione di tale pratica spetta a Jaakko Asko Tapio Seikkula, professore e psicoterapeuta finlandese. L’Open Dialogue è una pratica psichiatrica dove il primo incontro con il paziente è organizzato durante le 24 ore successive al contatto, in relazione alle crisi psicotiche. Il paziente e i membri della famiglia sono invitati a partecipare in tutto il percorso di trattamento, sono invitati anche tutti i professionisti di fondamentale importanza che hanno avuto in passato contatti con la famiglia, e tutte le persone vicine al paziente, con l’obiettivo di condividere i propri pensieri e relative soluzioni in merito al problema, ed è una pratica psichiatrica dove tutte le decisioni inerenti al trattamento vengono discusse in presenza del paziente e della propria famiglia. Con l’introduzione dell’Open Dialogue, in Finlandia, si è riscontrata una forte diminuzione dell’incidenza annua della schizofrenia: da 33 nuovi pazienti l’anno su 100.000 abitanti nel 1985 a 2 nuovi pazienti l’anno su 100.000 abitanti nei primi anni del 2000. Dall’utilizzo della pratica del Dialogo Aperto sono emersi dati che fanno ben sperare, in quanto da uno studio riferibile ad un un follow – up di cinque anni è emerso che ben l’82% non presentavano più sintomi psicotici residui. Inoltre, il 76% dei pazienti era tornato al proprio impiego. Il metodo è stato testato anche in Italia, infatti l’Asl di Torino nel Piemonte, ha presentato nel 2014 al Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (CCM) del Ministero della Salute il progetto esecutivo dal titolo Il Dialogo Aperto, un approccio innovativo nel trattamento delle crisi psichiatriche d’esordio-definizione e valutazione degli strumenti operativi ed organizzativi per la trasferibilità del dialogo aperto nei DSM italiani. Sarebbe senza dubbio interessante applicare questa pratica innovativa nella prevenzione del tentato suicidio, in quanto Il dialogo viene definito aperto perché non esistono riunioni di cura separate nelle quali l’équipe pianifica il trattamento del paziente, tutte le decisioni vengono prese apertamente in sua presenza, senza tenere alcun segreto né a lui, né ai familiari: l’Open Dialogue si contraddistingue per la sua grande trasparenza e un forte coinvolgimento dei diretti interessati nei processi decisionali riguardanti la cura del paziente, e la forza sinergica di tale collaborazione può riempire il senso di solitudine, vuoto e abbandono del soggetto; il paziente non è solo, ma contornato da persone che sono lì proprio per lui, per aiutarlo a ritrovare la sua identità, insieme. Fornire aiuto immediato alla manifestazione psicotica può aiutare a ridurre il numero di ospedalizzazioni e ricadute, ma soprattutto, tenendo anche conto della popolazione giovanile, aiuta a scongiurare quello stigma che spesso aleggia nel gruppo dei pari e che porta all’isolamento dell’adolescente. Spesso, infatti, il timore di essere percepiti come diversi e di essere giudicati spinge a ritirarsi nella solitudine, tagliando fuori il mondo e tutto ciò che ha da offrire.

ADOLESCENTI E SOLITUDINE: IL FENOMENO DEGLI HIKIKOMORI

Emilia D’Anna, Sara Diamare 

Io mi sento me stesso solamente quando sono solo.
 Il rapporto con gli altri non mi viene naturale: mi richiede uno sforzo.

Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile, Peter Cameron

L’adolescenza è da sempre considerata come un periodo colmo di difficoltà: i cambiamenti corporei, il confronto tra pari e lo sviluppo della sessualità sono tutti elementi che rendono questa età estremamente tumultuosa. È proprio dai costanti confronti con il mondo esterno che spesso gli adolescenti avvertono un bisogno stringente di tagliare fuori il mondo e racchiudersi nella solitudine. Questa necessità non necessariamente si pone come qualcosa di negativo: anzi, il tempo passato da soli viene utilizzato per focalizzarsi maggiormente su di sé e su quegli aspetti che si desidera modificare, in modo da poter crescere ed evolversi. Per tale ragione, si può affermare che un certo grado di solitudine è fisiologico durante questa fase di transizione verso l’età adulta: Winnicott sostiene che la possibilità di usare proficuamente il tempo passato da soli rappresenta una tappa evolutiva fondamentale e che è proprio in questa fase che si impara ad utilizzare la solitudine in maniera costruttiva. Ma non sempre la solitudine porta a risvolti positivi o risulta funzionale per la crescita; talvolta l’isolamento dal mondo esterno assume caratteristiche croniche che possono risultare dannose per la salute fisica e mentale dell’adolescente. È il caso del fenomeno degli hikikomori, termine giapponese con il quale si fa riferimento a giovani ragazzi, prevalentemente di sesso maschile, tra i 14 e i 30 che sviluppano un totale ritiro dalla società e un rifiuto a intrattenere rapporti interpersonali sia fuori che dentro le mura domestiche. Nonostante i numerosi studi effettuati a riguardo, a oggi non è ancora disponibile una descrizione universalmente condivisa del fenomeno e, dunque, non possiede ancora dignità nosografica all’interno del DSM-5. Nonostante ciò, vi sono delle caratteristiche che accomunano tutti gli hikikomori: oltre al ritiro dal mondo esterno e l’incapacità di mantenere relazioni significative, vi sono difficoltà a controllare l’aggressività e alterazioni del ritmo circadiano, dovute anche al fatto che spesso vengono utilizzati dei teli scuri per non far entrare la luce naturale. Sono stati effettuati alcuni studi per indagare le cause alla base di questo fenomeno: tra i fattori scatenanti ritroviamo un’eccessiva pressione da parte dei genitori, forme di bullismo scolastico, vissuto di vergogna nei confronti delle richieste della società considerate eccessive. In relazione a quest’ultimo punto, è stato evidenziato che se un sistema scolastico risulta rigido potrebbe respingere questi ragazzi che non si sentono capaci di soddisfare gli standard richiesti, preferendo dunque assentarsi piuttosto che gestire il vissuto di vergogna derivato dall’impossibilità di competere con i propri coetanei; l’assenteismo, per tale ragione, è considerato uno dei primi sintomi del ritiro sociale ed è presente nel 65% dei casi analizzati. 

Sebbene le interazioni sociali siano ridotte al minimo, non si può dire lo stesso delle interazioni online. Passando la maggior parte del proprio tempo chiusi tra le mura delle proprie camere, gli unici scambi che gli hikikomori hanno con il mondo esterno avvengono grazie all’aiuto della rete. L’ausilio del digitale mette in evidenza la necessità di mantenere relazioni sociali, ma senza mai andare incontro al disagio generato dal mostrarsi dal vivo. Secondo alcuni, l’avvento della pandemia potrebbe aver esacerbato questo vissuto di isolamento in ragazzi che già in precedenza manifestavano sintomi di ritiro sociale. Secondo altri, invece, potrebbe aver sortito l’effetto opposto. La protezione offerta dalla mascherina e le norme di distanziamento sociale potrebbero aver spinto ragazzi hikikomori ad avventurarsi nel mondo esterno riducendo il disagio derivato dall’interazione con il mondo esterno. Tuttavia, uscire da una condizione di isolamento così pervasiva necessita di aiuto professionale, magari andando incontro al loro bisogno. Attualmente, oltre al possibile utilizzo della terapia farmacologica, sono stati riscontrati effetti positivi anche con l’ausilio della psicoterapia on line o a domicilio. Questo ridurrebbe i casi di violenza domestica di cui spesso gli hikikomori sono protagonisti. Ma è solo chiedendo aiuto che gli hikikomori possono finalmente riprendere in mano la propria esistenza e tornare a vivere alla luce del sole. 

CONTRASTARE LA VIOLENZA MASCHILE CONTRO LE DONNE IN SANITÀ PUBBLICA 

Antonella Bozzaotra

Negli ultimi due anni, ovvero dall’arrivo nelle nostre vite della pandemia da Covid-19, nonostante alcune istituzioni e organizzazioni abbiano cercato di porre l’attenzione sull’emergenza rappresentata dalla violenza maschile contro le donne, la situazione pandemica è apparsa come una dimensione fortemente totalizzante, che ha travolto le vite di tutti e tutte, non lasciando spazio ad altro e in particolare a quei fenomeni, come la violenza di genere, che rischiano di rimanere sommersi, lasciando in un vissuto di solitudine le vittime. La violenza maschile contro le donne è stata dichiarata dall’OMS nel 2013 (WHO, 2013) epidemia e in tempi più recenti il segretario generale dell’ONU (2018), António Guterres, l’ha paragonata a una pandemia globale. Una parola, diventata tragicamente familiare per noi tutte e tutti, che oggi ci rimanda con maggior chiarezza alla gravità del fenomeno. Considerata in relazione alla malattia da Sars-Cov-2, in questo periodo la violenza di genere è stata infatti definita dall’OMS (WHO, 2020) e dall’ONU (2020) un’emergenza nell’emergenza. Secondo l’OMS, ancora, operatori socio-sanitari adeguatamente formati ad affrontare la violenza contro le donne possono fare una grande differenza nel curare non solo le lesioni fisiche, psichiche e sessuali, ma anche il dolore che da esse deriva. L’OMS, infine, ha definito la violenza contro le donne come un fenomeno che ha una tragica costanza nel tempo e una notevole diffusione attraverso culture e classi sociali; inoltre, ha connotazioni sanitarie per le conseguenzefisiche che determina ed è in grado di intaccare il complessivo stato di benessere psico-fisico sociale femminile e quello dei figli, spesso presenti all’agire violento dei padri. Per tali motivi L’OMS ha definito la violenza contro le donne come un problema che riguarda la salute pubblica. La violenza maschile contro le donne costituisce, in tutti i paesi del mondo, sia pure in forme e proporzioni differenti, un problema grave e diffuso; rappresenta una sorta di indicatore del permanere di una condizione storicamente ineguale, di svantaggio dei rapporti tra uomini e donne. Tale condizione ha portato ad una ineguale realizzazione dei diritti, a forme di discriminazione e a ostacoli nel conseguimento dell’uguaglianza di genere. Su queste considerazioni è stato sviluppato il piano per il contrasto alla violenza maschile contro le donne dell’Azienda Sanitaria Napoli 1 Centro che si articola in interventi per le vittime, per gli autori, per le vittime di violenza assistita, per gli operatori.  

Per le vittime:

• Attività di codice rosa e refertazione psicologica ai sensi della delibera regionale n.47 del 28/01/2020;

• Attività di sostegno psicologico per donne vittime di violenza nei momenti successivi alla denuncia;

• Psicoterapia individuale;

• Attività di cooperazione con i C.A.V. e la rete istituzionale cittadina, regionale, nazionale.

Per gli autori: 

• Progetto “Oltre la Violenza”, istituito nell’aprile del 2014, si occupa del trattamento di uomini autori di violenza domestica, fisica, sessuale, psicologica ed economica contro le donne. Si occupa di padri autori di reato di violenza assistita e maltrattamento. L’accesso ai servizi previsti dal progetto è su richiesta spontanea e, dal settembre 2019, ai sensi della legge n.69/2019 (codice rosso). Si accede telefonando al numero  fisso 0812549284, al mobile 3385004398 o inviando una mail a: oltrelaviolenza@aslnapoli1centro.it

Per le vittime di violenza assistita:

• Progetto  “Un’altra via d’uscita” finanziato dalla fondazione “Con il sud”. Obiettivo del progetto è stilare linee  guida per il trattamento dei soggetti vittime di violenza assistita;

• Progetto “Vidacs” finanziato dalla comunità europea. Obiettivo del progetto individuare pattern relazionali per lo sviluppo di modalità empatiche verso i minori vittime di violenza assistita. 

Per gli operatori: 

• Sportello di consulenza volto a condividere prassi di contrasto;

• Corsi ECM e di aggiornamento per dirigenti e operatori.

Infine, molta importanza riveste — per il gruppo di lavoro che in questo periodo sta intervenendo sul fenomeno — la metodologia con la quale si interviene. Tale metodologia definita dei “quattro passi” (Bozzaotra, 2019) parte dalla premessa che solo con l’analisi dei vissuti, delle cose pensate e sentite oltre che degli agiti si può, anche grazie alla difficile arte di abitare le differenze, trovare lo spazio per trasformare quegli equilibri culturali e sociali, che sono premessa all’agire violento e possono aiutare a superare la solitudine vissuta da coloro che sono vittime della violenza. 

Quanto detto finora mette in luce anche il grande lavoro che gli operatori svolgono in contesti delicati come possono essere quelli di violenza. Per tale ragione, è importante prestare attenzione anche al loro benessere in modo da poter essere sempre in grado di tendere la mano a chi ne ha bisogno. 

ENTERPRISE 2.0 IN PANDEMIA DA COVID-19

Arianna Glorioso, Sara Diamare 

Nell’azione di contrasto all’epidemia, la medicina e la scienza sono, giustamente, in prima linea. L’estrema condizione di stress, l’incertezza in cui versa la popolazione durante le epidemie globali di malattie infettive, come il Coronavirus (COVID-19), richiedono un’attenzione particolare ai bisogni del personale sanitario, che insieme ai governi e le autorità sanitarie e di pubblica sicurezza, sono impegnati in prima linea nella gestione dell’emergenza sul territorio e nella tutela dal fenomeno epidemiologico, garantito da misure restrittive di isolamento sociale. In questo tempo tutti gli operatori sanitari in servizio hanno avuto un confronto quotidiano con la malattia e la morte, e un carico di lavoro senza precedenti che ha lasciato segni profondi. Il vissuto di solitudine appare come una sorta di filo conduttore in quasi tutte le testimonianze del personale in prima linea (medici, infermieri, fisioterapisti, tecnici, ostetriche, assistenti sanitari, OSS) e in tutti i setting (ospedale, territorio, RSA). Il senso di abbandono ha riguardato diversi aspetti: la gestione clinica dei pazienti, le scelte legate al non poter curare tutti, l’impatto emotivo, la mancata protezione del personale dall’infezione. Tutto ciò, per un prolungato periodo, spesso lontano da familiari, ha creato tanta solitudine nata dalla privazione delle relazioni affettive, a volte anche accompagnata dal non riconoscimento dello sforzo profuso. Dunque, dato il protrarsi della situazione di emergenza sanitaria e di isolamento è nato il bisogno di identificare e attuare misure di impatto per prevenire il Burnout. In un’ottica di prevenzione che miri a migliorare la salute e il benessere fisico, sociale e psicologico, l’Unità Operativa Complessa Qualità e Umanizzazione dell’Asl Napoli 1 Centro ha promosso iniziative congiunte con i Sistemi informatici e ICT di motivazione all’alfabetizzazione digitale Enterprise 2.0 – per il miglioramento della qualità, in un’ottica di multidisciplinarietà per facilitare l’utilizzo della comunicazione digitale e favorire la relazione ed il sostegno reciproco nonostante lo stato di isolamento. L’utilizzo di processi collaborativi e tecnologie di Content management system o CMS (sistema di gestione dei contenuti) hanno caratterizzato le azioni di sensibilizzazione, di formazione verticale e di iniziative trasversali in più fasi: teorica sui contenuti di Enterprise 2.0 e di Marketing sociale, laboratoriale sui processi di Co-costruzione e Life Skills, Focus Group e creazione della Mappa delle Attività. Il team di psicologi e ingegneri, attraverso processi collaborativi e tecnologie di CMS, ha operato a supporto della raccolta e della gestione dell’aggiornamento formale e sostanziale di informazioni parallelamente condivise su Ipertesti da più persone/servizi. La diffusione di tali percorsi e strumenti che sono risultati utili al miglioramento del clima relazionale/organizzativo interno e di ricerca-intervento per la valutazione dei livelli di umanizzazione dell’assistenza ha agito a supporto e sostegno degli operatori sanitari al fine di migliorare le condizioni relazionali e di comunicazione e preservare la salute dagli effetti dello stress e dai vissuti di malessere psicologico. Individuando nell’ascolto dei bisogni insoddisfatti  la possibilità di spostare l’attenzione dal concetto di “cura” al concetto di “prendersi cura”, si può praticare quella vicinanza umana che allevia non poco la sofferenza ed il senso di solitudine. L’ottica di Enterprise 2.0 è stata dunque messa a servizio della speranza solidale, aprendosi alla relazione anche attraverso dei corsi di formazione on line. La modalità didattica per l’80% è stata svolta in laboratori pratici basati sul cooperative learning, ovvero attraverso un lavoro di gruppo per dare ascolto alle testimonianze di esperienza professionale di operatori impegnati in una riorganizzazione repentina delle strutture e dell’assistenza durante la fase più drammatica della pandemia Covid-19. Fondamentale è stato lo sviluppo del canale on line I Salotti Virtuali del Benessere, che, attraverso la metodologia dei Salotti del Benessere© ha rinnovato l’importanza di una community di promozione della salute e di miglioramento della qualità della comunicazione tra operatore sanitario e paziente/caregiver; un sistema di rete affidabile e accogliente grazie al quale apprendere, aggiornarsi e sperimentare nuovi modi di vivere la propria salute. La proposta di incontri si è basata sulla reciprocità della relazione e tecniche anti stress (mindfulness, bioenergetica ed arteterapia) utili per aumentare la resilienza e rafforzare l’equilibrio psicofisico. Gli operatori sanitari partecipanti al programma sono stati coinvolti in laboratori psicocorporei riguardanti: la postura, la mimica, gli atteggiamenti, i gesti e l’uso dello spazio per il fine ultimo di percepire in modo consapevole il proprio vissuto e quello altrui a partire dall’osservazione dell’espressività corporea e dalla decodifica dei tratti caratteriali e relazionali nel pieno rispetto delle diversità. Di fatto il pieno coinvolgimento dei partecipanti anche in attività di focus group ha insegnato loro a riflettere su come questo spazio altro ha inciso sulle modalità di gestione della relazione con gli altri nelle scelte difficili, nell’organizzazione del lavoro e dei reparti e nel lavoro in team nonostante le limitazioni nei reparti; il distanziamento sociale; la solitudine e lo stress. Essi hanno testimoniato la possibilità dello sviluppo di comunità salutogenetiche online che ci auguriamo possano essere un piccolo prezioso esempio per le altre professioni che rappresentiamo. Un’opportunità irrinunciabile per la comunità afferente che potrebbe apportare importanti benefici in termini di qualità dell’assistenza. La progettualità espressa in questo percorso può essere utilizzata per numerose professioni sanitarie, in quanto la promozione della salute e la prevenzione primaria, secondaria e terziaria è la mission per attivare quell’empowerment psicocorporeo fondamentale per chi si trova a lavorare in stato di emergenza e restituire al singolo operatore un ruolo attivo nei percorsi di prevenzione e di cura che lo riguardano, onde abbattere le condizioni di solitudine e di esclusione.

CONCLUSIONI

Donatella Tramontano 

«La prima volta che ho riconosciuto i sintomi della solitudine è stato all’ufficio postale. Se vuoi imparare qualcosa sulla solitudine dovresti passare un po’ di tempo all’ufficio postale, in particolare quando si pagano le pensioni. L’ufficio postale è pieno di signore e signori anziani di III e IV età. L’ufficio postale raccoglie persone del quartiere, alcune di loro si conoscono, iniziano a cercarsi, a riconoscersi. Se trovano una conoscente le signore, dopo aver aggiornato l’elenco dei disturbi del mese, spettegolano un po’ su familiari e amici comuni, parlano del loro programma televisivo preferito e ovviamente si lamentano del costo sempre crescente della vita. I gentiluomini parlano di calcio e si lamentano del governo e delle tasse. L’ufficio postale diventa un luogo di incontro per dialogare per cercare disperatamente un contatto. Alcuni restano per conto loro, peccato non hanno trovato alcun conoscente. Ma per questi ultimi quando arriva il loro turno hanno l’impiegato con cui parlare. Alcuni impiegati, non tutti a dire il vero, capiscono perché diventano esperti nel riconoscere i sintomi della solitudine e quindi sono pazienti e simpatici e il pagamento di una bolletta diventa una scusa per pochi minuti di socializzazione. Farmacie e studio del medico di base sono altri luoghi in cui ho visto la solitudine al lavoro, almeno in Italia. Anche, farmacisti e medico di base diventano surrogato di amici e familiari, raccolgono pezzi di vita, pensieri, paure, lacrime di persone che sentono di non aver nessun altro a cui poter ricorrere e su cui poter contare, con cui condividere frammenti di vita, persone che sentono di non avere nessuno, ma, cosa ancora più grave, che non c’è nessuno che ha bisogno di loro, persone che si “sentono sole”. Persone che, in una parola, soffrono di solitudine. 

Sebbene la solitudine sia un’emozione comune agli esseri umani è e rimane un’esperienza unica per ogni individuo in quanto deriva dalla percezione, o valutazione soggettiva, della discrepanza tra la qualità della vita relazionale desiderata e realizzata (Cacioppo, 2015) Per i profondi cambiamenti avvenuti nella società occidentale sul ruolo delle donne, sul mondo del lavoro, sulla cultura, sulla struttura familiare, rimanere o vivere da soli non sono più una condanna, uno stigma, piuttosto una scelta libera e consapevole. Anche la reazione al vivere da soli è un’esperienza molto individuale. Chi sceglie di vivere da solo, in genere, è felice e soddisfatto della qualità della sua vita affettiva e relazionale. Per altri, anche la scelta consapevole di solitudine si può trasformare in un macigno insopportabile. Nella differente reazione allo stare soli, la resilienza può giocare un ruolo chiave. La resilienza è la capacità di adattarsi ai cambiamenti e reagire positivamente alle avversità o ad eventi stressanti (Liu JJW e altri, 2020). In questa ottica, la resilienza è una componente essenziale del benessere soggettivo (Cocozza e altri, 2020). Alti livelli di resilienza aiutano le persone a utilizzare i sentimenti e le emozioni positive per lasciarsi alle spalle esperienze contribuiscono ad aumentare la qualità della vita percepita a livello fisico e psicologico e, al contempo, a ridurre l’ansia e i sintomi depressivi. (Gerino et al 2017) Sebbene, la resilienza sia un tratto di tutti gli umani non tutti ne sono “dotati” allo stesso livello, ma la  resilienza si può allenare e accrescere. Una persona resiliente sposta il suo focus dall’avversità e impiega le sue energie per andare avanti. Imparare dai resilienti potrebbe essere un modo per aiutare a combattere la solitudine. Essere soli, quindi, non è un prerequisito per sperimentare la solitudine poiché non tutti si sentono soli quando sono soli.  Ci si può sentire “soli nella folla” (Cacioppo e altri, 2009) perché la solitudine non ha niente a che vedere con quante persone vedi o incontri, se vivi con coniuge e figli poiché è possibile avere una relazione o vivere con la famiglia e sentirsi ancora soli. Non importa quante persone conosciamo o quanti amici abbiamo sui social media. Ciò che è importante è come valutiamo le nostre relazioni, che significano per noi le persone che ci circondano. Non sorprende che le valutazioni qualitative o soggettive delle relazioni sociali siano predittori di solitudine più importanti degli aspetti quantitativi delle relazioni sociali. I principali approcci teorici alla solitudine includono e sottolineano il ruolo dell’ambiente sociale nell’esperienza della solitudine: dalla perdita dei propri cari alla crisi economica, ma anche da fattori culturali, istruzione e contesto urbano. Il contesto urbano moderno è concepito come spazio denso di popolazione per facilitare l’attività economica, con scarso riguardo per il benessere personale di coloro che li riempiono. Gli spazi pubblici scompaiono e con essi l’opportunità di incontro. Trasporto pubblico insufficiente o/e inefficiente limita la possibilità di raggiungere o essere raggiunti da amici e familiari. Ed ancora, problemi economici certamente limita le opportunità di socializzazione e inducono sentimenti di solitudine. Infine, ma non meno importante, una salute precaria, la perdita di mobilità o altre menomazioni fisiche possono che rendono difficile uscire di casa tutte le volte che si desidera, riducendo le opportunità di contatto sociale inducono a lungo termine una sensazione di solitudine. La solitudine colpisce tutte le fasce d’età, un bambino solo, che cerca di fare amicizia a scuola, e un anziano che ha perso il coniuge nel recente passato, rappresentano due scenari totalmente diversi come causa della loro solitudine. Pertanto, inerente alla complessità della solitudine è la complessità delle sue cause e in alcuni, se non nella maggior parte dei casi, è il concomitante intreccio di diversi fattori interni ed esterni che alla fine innescano un sentimento di solitudine. Nel nostro mondo di 8 miliardi di persone, globalizzato, iper-connesso, nelle città dove si concentra la maggior parte degli individui, la solitudine, quella di chi si sente solo, si sta diffondendo come un’epidemia pericolosa ma invisibile. Lo studio di Surkalim e collaboratori su 113 paesi o territori nel periodo 2000-19, ha rilevato che la solitudine ad un livello problematico è un’esperienza, comune in tutto il mondo seppure con differenze specifiche nei vari contesti. (Surkalim DL e altri, 2022) Siamo tutti consapevoli che la solitudine in quanto sentimento comune a tutti gli umani, non  può essere completamente estirpata. Certo con la solitudine si può convivere, ma è faticoso e doloroso ed i momenti di sollievo sono rari. Il vero problema è che la solitudine compromette la qualità della vita ed aumenta il rischio di malattie fisiche e mentali. In particolare, la solitudine è stata collegata a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e di mortalità (Ong e altri, 2016; Hackett RA e altri, 2020; Yanguas e altri, 2018.). Alcuni studi suggeriscono addirittura che potrebbe esserci un legame tra la solitudine e un aumento del rischio di sviluppare demenza e Alzheimer (Sundström e altri,  2020). I sentimenti di solitudine a lungo termine possono ridurre le capacità cognitive, ed aumentare il rischio di andare incontro alla depressione (Lee et al 2021), con esiti drammatici come pensieri suicidi e suicidio. 

Le conseguenze della solitudine sulla salute fisica e mentale dei cittadini sta diventando un problema sociale e politico anche per il peso sui sistemi sanitari di tutto il mondo. Gli studi sui fattori che contribuiscono alla solitudine sono importanti perché la loro conoscenza può aiutare sostanzialmente a ridurre l’impatto della solitudine sullo stato di salute mentale delle persone. Tali conoscenze dovrebbero essere disponibili per progettare e attuare programmi di prevenzione, da un lato per identificare e assistere coloro che rischiano le conseguenze più dannose della solitudine come il suicidio, l’abuso di sostanze e lo stress e d’altra parte, per contribuire a migliorare la qualità della vita e il benessere delle persone che rischiano di sviluppare la solitudine. Abbiamo imparato, o forse stiamo ancora imparando, dalla pandemia di COVID-19 che la salute non è una responsabilità del solo sistema sanitario, ma dell’intera comunità (Illario M. e altri, 2020). Per affrontare la solitudine e le sue conseguenze in modo sano e, si spera, efficace, ogni componente della società deve assumersi la propria parte di responsabilità, dai responsabili decisionali, ai sistemi sanitari, dai servizi alla comunità, alle organizzazioni di volontariato, alle organizzazioni culturali, agli architetti, agli urbanisti solo per citarne alcuni.

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AUTORI

Maddalena Illario 

Dipartimento Sanità Pubblica, Università degli Studi di Napoli Federico II

U.O.S. Ricerca e Sviluppo – Azienda Ospedaliera Federico II

Vincenzo De Luca

Dipartimento Sanità Pubblica, Università degli Studi di Napoli Federico II

Girolamo Laudanna
U.O.S. Ricerca e Sviluppo – Azienda Ospedaliera Federico II

Giovanni Tramontano
U.O.S. Ricerca e Sviluppo – Azienda Ospedaliera Federico II

Sara Diamare
U.O.C. Qualità e Umanizzazione ASL Napoli 1 Centro

Arianna Glorioso
U.O.C. Qualità e Umanizzazione ASL Napoli 1 Centro

Emilia D’Anna
U.O.C. Qualità e Umanizzazione ASL Napoli 1 Centro

Valentina Busiello
U.O.C. Qualità e Umanizzazione ASL Napoli 1 Centro

Donatella Tramontano 

Fondazione GENS

Giuseppe Auriemma
CSM 31 ASL Napoli 1 Centro

Graziella Milan
DS 28 U.O.S Coordinamento RSA Anziani ASL Napoli 1 Centro

Keoma Colapietro
Coordinamento cure domiciliari, Assistenza Anziani e ADI (Assistenza Domiciliare Integrata), ASL  Caserta 

Antonella Bozzaotra
DS 33 U.O.C. Psicologia Clinica ASL Napoli 1 Centro

Caterina De Falco
DS 28 U.O.S Coordinamento RSA Anziani ASL Napoli 1 Centro

per citare questo articolo

Pro.M.I.S.:

Un quadro generale,

n. 26 - Solitudini,

settembre-dicembre 2022

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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In Preludio a un bacio di Tony Laudadio, Emanuele racconta in prima persona la sua storia dolcissima, complicata e anche un po’ surreale. Emanuele è un barbone, un musicista solo che, per mantenersi, suona agli angoli delle strade, facendo innamorare i passanti della sua musica.

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Quando la solitudine non farà più rima con marginalità sociale, etnica, culturale, economica, politica vivremo in una dimensione sana, dove saremo in grado di apprezzare la faccia buona della solitudine. Quella che si traduce in un tempo privato ed estremamente prezioso per ogni singolo essere umano.