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Dettaglio dell’Ara Pacis — Roma

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Gea, una divinità in ombra

10 Luglio 2019
Ultimamente a Roma si è tenuto un incontro culturale, Sulle tracce della Grande Madre, evento dedicato all’archetipo probabilmente più antico nell’arte sia orientale che occidentale. Questa primordiale concezione di divinità, ben forte e radicata agli albori dell’umanità, col passare dei secoli si è, non dico persa, ma sicuramente affievolita.
Dettaglio dell’Ara Pacis — Roma

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Gea, una divinità in ombra

10 Luglio 2019
Ultimamente a Roma si è tenuto un incontro culturale, Sulle tracce della Grande Madre, evento dedicato all’archetipo probabilmente più antico nell’arte sia orientale che occidentale. Questa primordiale concezione di divinità, ben forte e radicata agli albori dell’umanità, col passare dei secoli si è, non dico persa, ma sicuramente affievolita.

Esempio indicativo di questo concetto è la dea Gea, divinità della mitologia greca che da sempre ci affascina, forse perché abbiamo considerato la Grecia classica e successivamente Roma, la culla della nostra civiltà, sostanzialmente la vera radice della nostra cultura. Gea, chiamata Tellus dai Romani, è la personificazione della terra e come suoi attributi, nell’iconografia classica, ritroviamo cornucopia, spighe, fiori e serpente, animale ctonio per eccellenza. Questa divinità è giunta nell’immaginario collettivo attraverso l’opera immortale di Esiodo, la Teogonia, racconta la nascita degli dei che nella religione greca hanno un’origine e una precisa genealogia. All’inizio dei tempi, si narra esistesse solo oscurità, una specie di immenso buco nero, che i Greci chiamavano Chaos, un abisso senza fine dove niente è distinto e dove il concetto di ordine e stabilità, a loro tanto caro, non esiste. All’improvviso dal Chaos emerge Gea, la Madre Terra, che è il suo esatto opposto in quanto rappresenta una forma distinta, solida e ben visibile: personifica un concetto primordiale di ordine ed equilibro del cosmo, un pavimento dove il cosmo potrà progredire. Gea genera Urano (rappresentazione del Cielo), le montagne, Ponto (rappresentazione del mare) e Tifeo. Dei suoi figli è di particolare interesse Urano, che altri non è che un suo uguale, una specie di doppio che si staglia sopra di lei e la completa, una sua replica simmetrica, seppur non sia solido e percorribile. Ora l’universo stabilito possiede un sotto e un sopra e può dirsi compiuto. Il mare viene creato attraverso una forma liquida, necessaria per unirsi con sua madre. Da lei esso prende l’aspetto bello e luminoso in superficie e buio e inquietante in profondità (interessante vedere come i Greci credano che nonostante esista e sia stato creato un ordine e un equilibrio cosmico, il caos sia comunque, seppur nascosto, sempre presente, una paura e una preoccupazione mai sconfitta). Con Urano, Gea smette di procreare da sola, creando quindi un concetto di maschio e femmina; dalla loro unione nascono esseri straordinari, i Titani, le Titane, i Ciclopi e gli Ecatonchiri, prime entità non più astratte ma con assomiglianze umane. Urano però, geloso della forza dei suoi figli e timoroso del fatto che un giorno possano spodestarlo, li imprigiona nelle profondità della madre (nel Tartaro) obbligandoli ad una prigionia forzata: il suo unico desiderio in realtà è unirsi sessualmente con la sua controparte. Gea all’inizio viene descritta come una divinità accogliente, sempre disposta a esaudire le volontà del suo sposo, nonostante esso sia violento e usurpatore, la soffochi col suo peso, non prenda in considerazione le sue volontà e la punisca, in preda alla collera, attraverso uragani e cataclismi. A un certo punto però tutto cambia, in quanto lei si ribella a questa subalternità, spinta dal dolore provocato per la prigionia dei suoi figli che, tra l’altro, le squarciano le profondità quando si dimenano per cercare la libertà. Dalle sue viscere genera la selce con cui costruisce un falcetto, raduna la sua progenie e l’aizza contro il padre violento. Nessuno di loro ha il coraggio di reagire tranne il più piccolo, Crono, che decide che è ora della vendetta. Si nasconde in un anfratto aspettando l’arrivo del padre e attende che si addormenti esausto dopo aver posseduto la sua amata, poi con un balzo si piomba su di lui afferrandogli i genitali con la mano sinistra (da quel giorno simbolo di malaugurio) e lo evira. Intimorito dal grido di dolore di Urano, scaglia i genitali il più lontano possibile e fugge via. Le gocce di sangue cadute sulla Terra generano altri esseri straordinari, le Erinni, divinità punitrici delle ingiustizie umane e dei crimini contro i famigliari, temutissime dagli antichi e sorte alla ribalta principalmente attraverso il racconto su Oreste, i Giganti e le ninfe Melie, mentre il seme di Urano con il mare genera Afrodite, dea dell’amore. Con la castrazione di Urano nasce una nuova era, dove il Cielo e la Terra non sono più legati indissolubilmente e dove il vuoto che si crea tra di loro permette a nuove generazioni, prima di divinità e poi di esseri umani, di respirare, riprodursi e progredire. Il potere viene preso da Crono che, sebbene instaura un’età dell’oro (per gli antichi il periodo più felice della storia dell’uomo), alla fine commette gli stessi errori del padre e viene soppiantato da suo figlio Zeus. Questa è la storia mitologica che ci racconta Esiodo. Ora riallacciandoci al titolo, è interessante notare come il concetto di Madre Terra sia presente in tutte le mitologie ancestrali dell’uomo ma, col passare del tempo, perde importanza e diviene un concetto sempre meno definito. Agli albori delle culture più antiche è il femminile e non il maschile a incarnare l’archetipo del divino in quanto rappresentazione del mistero della nascita — rinnovamento della vita — e quindi anche della morte. I Romani adoravano Tellus, alla nascita i figli appena nati venivano posti a terra con uno speciale rituale, anche per i Greci era molto importante ma man mano che la loro società progrediva, il culto della Madre Terra veniva messo in secondo piano. Un motivo potrebbe essere che la società divenne sempre più patriarcale e con lo sviluppo di un benessere più diffuso, era ormai anacronistico adorare una divinità quasi esclusivamente legata a un’economia agraria. Alcuni studiosi propendono per la tesi che, a un certo punto, sia avvenuta un’invasione di popoli nomadi che ha distrutto agglomerati e culture stanziali portando con sé tutte le divinità tipicamente maschili, logiche per le loro società. Sia come sia, è arrivata a noi una religiosità antica piena zeppa di divinità (gli dei olimpici) belli e affascinanti, top model ante litteram, ma anche lussuriosi, dissoluti, sempre pronti a seguire i loro istinti e desideri, che non si fanno troppi scrupoli, per esempio, a unirsi tra parenti o addirittura con animali. Divinità che commettono spesso anche errori e per questi vengono puniti (divinità insomma ben diverse dal dio delle successive religioni monoteiste, perfetto, integerrimo e irreprensibile). Esempio lampante di questa dimenticanza di Gea si ritrova nell’arte. Mentre per gli dei olimpici vi è un’infinità di opere d’arte antiche ma anche moderne (come non ricordare le tantissime statue o affreschi realizzati durante il rinascimento o il barocco), per la Madre Terra si ricorda solo alcuni soggetti nella ceramica, un’immagine nell’altare di Pergamo e un bassorilievo nell’Ara Pacis dove Augusto la raffigura semisdraiata affiancata da bambini, fiori e frutti come simbolo della famosa pax augustea (ritorno alla pace, alla fertilità dei campi e quindi alla ricchezza e al benessere). La scarsa fama che Gea possiede presso la nostra società infine, è dovuta forse anche al fatto che durante il medioevo è stata fortemente osteggiata in quanto trattava un tema, come la creazione, da considerarsi troppo tabù per una cultura fortemente cristiana.

per citare questo articolo

Andrea Falanga:

Gea, una divinità in ombra,

n. 17 - Madre terra,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Pensare alla madre terra senza pensare a mia madre mi riesce difficile. L’Irpinia d’Oriente è la mia terra e quella di Franco Arminio, poeta e paesologo che Orione ha già intervistato nel numero sulla letteratura. Le terre dell’osso, come le definiva Manlio Rossi Doria, nutrono la parola e l’impegno del poeta che invita le persone, negli incontri che realizza in tutto

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«Nel possesso della terra [i mafiosi] continuano a vedere un segno di prestigio, quel “quarto di nobiltà” acquisito quando, al tramonto dell’epoca rurale, smisero di gestire i latifondi per conto dell’aristocrazia terriera per diventare a loro volta possidenti».[1] Dunque la terra (e il suo possesso) era, e resta, per le mafie,