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Chef Rubio fotografato da Andrea Boccalini

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Se il mondo fosse un posto migliore… intervista a chef Rubio

1 Dicembre 2020
Quando ho sentito che condivisione o sharing sarebbe stato il tema del prossimo numero di Orione, ho pensato subito che un personaggio come chef Rubio doveva essere interpellato.
Chef Rubio fotografato da Andrea Boccalini

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Se il mondo fosse un posto migliore… intervista a chef Rubio

1 Dicembre 2020
Quando ho sentito che condivisione o sharing sarebbe stato il tema del prossimo numero di Orione, ho pensato subito che un personaggio come chef Rubio doveva essere interpellato.

Schierato contro le ingiustizie del mondo — dell’uomo contro l’uomo e dell’uomo contro la Terra — ha sempre trovato mezzi giusti e modi efficaci per raccontarle e per diffondere consapevolezza su cause complesse, cui il pubblico televisivo e gli utenti social non avrebbero altrimenti guardato con tanta partecipazione — più o meno lieta — o cui non avrebbero guardato affatto. Dal 1° luglio 2020 ha disattivato i suoi account Facebook, Instagram e Whatsapp, dopo essersi accorto dello shadow-ban che ha colpito principalmente i suoi post anti-sionisti e pro-Palestina ma continua la sua condivisione social sul suo sito, www.chefrubio.it. Della sua sincerità, della sua schiettezza e della sua umanità offre testimonianza questa intervista e anche l’intervistatrice, che non ha saputo controllare una certa commozione e tutta la sua ammirazione nel rivolgersi a lui.         

Seguiamo da tempo le tue narrazioni multimediali che mostrano un grande impegno nella creazione e nel consolidamento di una dimensione sociale di gruppi umani vulnerabili, sostenuto dalla scoperta, dalla preparazione e dal consumo di buon cibo — che è sempre occasione di sincera convivialità. Da cosa nasce, cosa ha motivato e ancora motiva questo tuo impegno sociale?

Credo che nasca da lontano, da quando ero piccolo e pian piano si è costruito e consolidato nel tempo con informazioni e trasformazioni: prima alle medie — era il periodo della guerra del Kosovo, della guerra tra Eritrea ed Etiopia — leggevamo Internazionale con la professoressa, nascevano dibattiti in classe, ci confrontavamo e già questo è servito a sensibilizzarmi ad un certo impegno. Poi al liceo e all’università l’impegno si è amplificato e rafforzato e, ancora, andando in giro per il mondo, la presa di coscienza su importanti questioni è diventata sempre più profonda. Presa di coscienza, però, anche delle bugie che ogni giorno ci vengono propinate e per le quali quasi nessuno fa più di tanto, perché è un periodo storico particolare: siamo cresciuti alla fine degli anni ‘70, periodo in cui tentativi di rivolte contro un sistema neoliberista e capitalista sono state soffocate nel sangue. Da allora, le ingiustizie che dovrebbero smuovere chiunque sono tantissime: si pensi alla distruzione della democrazia, ne parliamo come se questa fosse ancora esistente; (la celebre frase-motto di Lincoln sulla democrazia, ndr) del popolo, dal popolo e per il popolo si è ormai trasformata in delle imprese, dalle imprese e per le imprese. Insomma, non siamo più considerati esseri umani ma capitale umano. Credo, quindi, che sia del tutto normale questo impegno sociale, non vedo nulla di eccezionale in me. Siamo in tanti ad infastidirci ma dovremmo trasferire il fastidio, in maniera coscienziosa e collettiva, dal multimediale al reale, altrimenti non ne usciamo: i miliardari ci hanno mangiato, ci stanno mangiando e glielo stiamo permettendo; sta vincendo il denaro, stanno vincendo i più furbi e i più prepotenti; siamo passati da un colonialismo territoriale e dal saccheggio dei campi al saccheggio dei corpi, delle menti e della biodiversità. Ci aspetta un futuro molto duro, non brutto perché siamo ancora in grado di poter reagire ma dobbiamo farlo subito.

È attraverso il cibo che hai cercato di dare il tuo contributo in questo senso?

Sì, ho iniziato col cibo per poi avere un appiglio largo che mi permettesse di parlare di cose serie. Il cibo è una cosa positiva, è una scusa per mettersi seduti per poi parlare d’altro.

Cosa detesti di più di questa vuota ipercondivisione?

Tutto. Io stesso ho fatto un percorso che prevedeva l’uso di social ma credo di averlo fatto in maniera totalmente differente da tantissimi colleghi e colleghe: non ho mai posto l’attenzione su di me, ma su quello che poteva avermi colpito del cibo. Veicolare messaggi utilizzando il cibo, attraverso mezzi di comunicazione come la tv, ad esempio, è un’operazione fraintendibile. Per quanto mi sia sforzato di trasmettere certi messaggi e abbia raccolto proseliti, è anche vero che molti hanno compreso solo le parti superficiali di questa condivisione mediatica. La ipercondivisione è comunque deleteria, perché finisce per essere fagocitata da dinamiche che non c’entrano nulla col tuo messaggio. Quindi, arrivato proprio a quel punto, mi sono fatto da parte perché non avevo più il piacere di continuare.

Cancelleresti tutto, quindi, di questo affollamento mediatico sul cibo?

Sì, il mondo va avanti anche senza questa sovraesposizione mediatica di cibo e la gente continuerà a mangiare finché esisterà. Il cibo sarà sempre in primis sopravvivenza, poi una zona comfort e, se non ci sono guerre e problematiche di forza maggiore, può diventare anche emozione e condivisione. Il principio primo del cibo è pur sempre quello di riempire la pancia per poter arrivare al giorno dopo ma siccome ci sono tante popolazioni che sono in situazioni difficili, parlare di cibo senza far mai riferimento a queste gravi situazioni è come non parlarne.

In questo impegno sociale, così importante e diffuso, qual è stata la causa alla quale hai sentito di aderire con più coinvolgimento?

È da anni che porto in alto il nome della Palestina e il dramma del suo popolo, che si è trovato, si trova e, con i recenti avvenimenti politici, si troverà a combattere contro le bugie dei potenti, di Israele, dei sionisti, delle comunità ebraiche che sono supportate dai potenti cui fanno pressione. Gli USA finanziano con milioni e milioni di dollari l’occupazione illegale dell’esercito israeliano in Palestina, affinché questa zona rimanga sempre instabile e ci si possa lucrare infangando il nome del meraviglioso popolo palestinese e della sua incredibile storia. E poi ci siamo noi, l’opinione pubblica, la comunità internazionale, che permettiamo tutto questo: sono quasi cent’anni che pulizia etnica e genocidio culturale sono in corso in questi territori senza che nessuno — se non poche persone — dica niente. Quella palestinese è la causa prima ma non toglie spazio al coinvolgimento per altre cause. Sono convinto, però, che se la Palestina tornasse libera, tanti problemi nel mondo automaticamente si risolverebbero. Sembra strano ma è così: essendo la questione palestinese la madre di tutte le ingiustizie, risolta questa, le altre a cascata si sbroglierebbero. Sembra, però, che per la maggior parte delle persone sia più facile stare dalla parte dell’occupante, del potente, del guerrafondaio. Ma io continuerò a diffondere consapevolezza su questa causa, sperando che dopo ci sia una trasformazione collettiva. Più di questo non posso fare: sono un pacifista, non penso di imbracciare le armi per una questione che va risolta a livello collettivo e mondiale.

Dunque, dalla Palestina e dalle iniziative per sostenere il suo popolo, come la tua partecipazione al Gaza Freestyle Festival, alla presentazione di ricette in LIS, quale attività ti ha spinto di più a superare i tuoi limiti?

I limiti sono quotidiani e sono tanti. Il duro lavoro è quello di rimanere positivi nonostante il clima d’odio che può rischiare di accecare e avvelenare. Invece, produrre, girare, scrivere le ricette LIS e sostenere i sordi, i sordociechi, i sordomuti non è affatto un peso così come sostenere la causa palestinese non è un sacrificio. Quindi, credo che superare i limiti quotidiani significhi cercare il bello nonostante questa dura quotidianità, nonostante le menzogne, le prepotenze e le conseguenze che sono generate dall’ignoranza e dalla cattiveria. La battaglia quotidiana è cercare di fare cose belle, perché il bello c’è, così come ci sono persone intelligenti e buone. Al momento, però, vincono quelli che mentono e urlano di più. Sicuramente è per me un vanto portare a galla sui social tematiche e cause che pochi conoscono o che pochi vogliono portare avanti  — alle quali mi dedico con quotidiano attivismo e studio — nel modo in cui meglio credo, con centinaia di migliaia di follower e una discreta credibilità, punzecchiando e provocando chi sta facendo male. Oltre i social, però, c’è la vita reale e quindi da questi bisogna passare ad un reale che trasformi e costruisca. Certo è che, se il mondo fosse un posto migliore e tutte le persone lottassero con veemenza per le ingiustizie di cui siamo testimoni, io mi farei i cazzi miei molto volentieri e smetterei di usare i social.

Header photo credit: Andrea Boccalini

Elsa con Chef Rubio.

per citare questo articolo

Elsa Pelullo:

Se il mondo fosse un posto migliore… intervista a chef Rubio,

n. 21 - Condivisione,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Paul Watzlawick nel suo prezioso Pragmatica della comunicazione umana teorizza, forse per la prima volta con una metodologia scientifica, una serie di assiomi che descrivono proprietà tipiche della comunicazione aventi importanti implicazioni relazionali. L’assunto iniziale è che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare, implicando livelli comunicativi non solo di contenuto ma anche di relazione.

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Negli attuali contesti storici lo sharing, il condividere, indica una relazione intenzionale di apertura all’Altro. Ha un valore inestimabile perché sottende a una volontà delle persone coinvolte di fare insieme, di arrivare ad un obiettivo comune, creando nel contempo, inconsapevolmente, legame sociale e sostegno alla coesione sociale. Alla base dello sharing moderno c’è una scelta, che si distingue dalla condivisione di spazi e risorse che ha caratterizzato la vita sociale degli uomini prima della Rivoluzione industriale.