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Il diario di Padre Scorza

4 Agosto 2020
Qualche anno fa, muovendomi in un’antica biblioteca lagobiondese, entrai nella Sala dei manoscritti e lì capitò tra le mie mani il diario di bordo di Padre Scorza, un missionario lucano vissuto presso un’antica tribù africana. Niente riuscii a sapere della sua vita mentre, in calce ad alcune pagine, lui stesso aveva annotato aspetti di quella tribù che mi avevano particolarmente colpito.
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Il diario di Padre Scorza

4 Agosto 2020
Qualche anno fa, muovendomi in un’antica biblioteca lagobiondese, entrai nella Sala dei manoscritti e lì capitò tra le mie mani il diario di bordo di Padre Scorza, un missionario lucano vissuto presso un’antica tribù africana. Niente riuscii a sapere della sua vita mentre, in calce ad alcune pagine, lui stesso aveva annotato aspetti di quella tribù che mi avevano particolarmente colpito.

Raccontava che dopo aver scoperto l’uso del mattone avevano cominciato a costruire piccole abitazioni per mettere al riparo le armi e gli oggetti preziosi. Mi parve davvero singolare il fatto che costruissero case al solo scopo di ospitare i ricordi e continuassero ad abitare sotto i rami che la straordinaria foresta in cui erano nati allungava da una parte all’altra degli alberi, componendo soffitti vegetali di un verde inaudito, capaci di calmare le ustionanti e assolate mattine africane. Viaggiando nelle pagine del diario feci sosta davanti ad alcune pagine che definirei rovesciate. Padre Scorza le aveva redatte lasciando vuoto lo spazio al centro e riempendo esclusivamente i margini, i bordi, come se le parole avessero la prevalente funzione di corazzare o perimetrare il niente, piuttosto che riempirlo di chissà quale discutibile malia di segni. E così, disposte come una cornice intorno allo spazio perduto della pagina, a loro volta incorniciate, piene di cancellature, di parentesi, di rimandi ad altre faccende grafiche poco comprensibili, le parole riportavano usi e costumi di quella tribù e descrivevano, in particolar modo il loro vissuto del centro e delle periferie.

Così piuttosto che mettere in circolo miei pensieri, ritengo preferibile farmi ambasciatore unico e privilegiato di queste pagine, lungo le quali ho trovato pensieri relativi al modo in cui queste tribù vivevano il rapporto tra centro e periferia.

Provo a trascrivere in modo fedele, scusandomi se per via della difficile grafia di Don Scorza, alcune parole saranno tradite dalla mia debole capacità di comprendere.

avevano lasciato i loro cuori disabitati e avevano spostato le loro memorie ai confini del loro respiro, sulla pelle.

Per quanti sforzi abbia fatto, mi sono convinto di una cosa: è inutile cercare di toccare il cuore delle persone, stimolare la loro intelligenza, suggerire pensieri al loro stupore perché ne nascano immagini mai immaginate. Quando ci ho provato hanno riso a più non posso, quasi fossi un Don Chisciotte del sentimento, uno che vede dietro il semplice battere di una pompa, dietro il semplice scorrere di un fiume rosso, la capacità di sentire la febbre, lo sgomento, la felicità, la tristezza.

Nulla di più errato. La febbre, lo sgomento, la felicità e la tristezza di questi uomini non abitano più nei loro cuori. Nei loro cuori non abita più niente se non il battito. In quelli che noi siamo abituati a pensare come i luoghi più antichi della memoria, delle emozioni, non restano che tracce sparse in forma di resti pelosi nelle zone ombelicali. Frammenti archeologici spuntati lì dove la vita, con molta probabilità, avendo origine, ha lasciato piccoli segni del suo accendersi intorno a microscopici peletti che loro chiamano “peli delle albe”. In alcune mattine di giorni capitati a caso, i “peli delle albe” di qualcuno si rizzano e chi avvicina l’orecchio potrà ascoltare distintamente le voci sottili di un bambino che chiama la madre, dice caccacaccacacca o pappapappapappa. Questo sono i “peli delle albe”, quello che resta delle loro prodigiose memorie, la pelosa radiocronaca dei primi passi. Per il resto niente. Quel vecchio centro degli uomini situato tra il cuore e la testa, tra l’ombelico e il respiro, nido e fuoco dei sentimenti e della sapienza, non esiste più.

Adesso il loro centro è la pelle. Tutto sta scritto lì. In queste fragili e sottili periferie del corpo dove la vita di ognuno si sposta, si raduna, si concentra, si disperde, si accende e si confonde con il mondo secondo il capriccio delle stagioni o gli incontri d’occasione. La memoria, i sogni, le attese, la simpatia, il sentimento, il pensiero. Sta tutto lì, su quella scena nera che è la loro pelle, lucida quando incontra la luce e profonda quando incontra la notte. Le vite degli abitanti sono tutte lì, in un punto indefinito della pelle tra la fronte e i piedi, tra i polpastrelli e il sistema pilifero. E non è un caso che il loro canto preferito, quello che loro inneggiano al cielo per ogni sconvolgimento solare sopra i loro destini dica questo:

La vita è la pelle e il cuore è l’abbandono.

La pelle è il centro e il cuore è solo un tuono. Tutto ripetuto all’infinito, fino a quando se c’è troppa pioggia la pioggia cessa o se c’è un vento che abbatte rami e pensieri, il vento si placa e si addormenta in qualche ramo scampato alla sua furia.

È quindi del tutto normale, per loro, vivere precoci contatti in cui, chi si incontra si mette a cercare il punto V dell’altro, il punto Vita, quel luogo in cui ha inizio e si esprime l’intelligenza e il sentimento di ognuno. Ogni abitante ha il proprio punto V, un luogo speciale della sua pelle in cui sente tutta la vita che c’è. Il gomito, la spalla, un piede, un gluteo, un naso: ogni regione della pelle può rivelare il punto V e così l’ascolto e la parola di queste persone altro non sono che viaggi nel mare della pelle, lungo i nascondigli costruiti sotto il sole cocente dell’Africa per accogliere i brividi, i tremori, la felicità. La vita.

Li vedi tutti lì, uomini e donne, sotto i rami, nei loro mercati di noci e di bestie, negli stadi per le corse dei leoni o sui muretti delle case dei ricordi a toccarsi, esplorarsi, prendersi mano nella mano che per loro equivale a prendersi memoria nella memoria. Il fiume di una vita che si mescola al fiume di un’altra vita.

Il cuore è ciò che resta. Il centro abbandonato alle scorribande di pensieri teppisti, di desolanti questioni, di infuocate passioni. Tutta roba che sfugge al governo della pelle e arriva in quella terra di nessuno a sconvolgere i battiti della vita e il ritmo del sangue. Ma su questo gli abitanti non possono farci nulla. Hanno smesso di abitare e di sentire il loro cuore. Sono tutti lì, a fior di pelle, affacciati alla vita, senza preoccuparsi di come la vita, con le sue vibrazioni, arriva fino a lì, nel profondo, a provocare terremoti e voli. La vita e la morte. A partire da qui nascono i luoghi e i luoghi della loro vita non sono altro che riflessi del modo in cui concepiscono i loro corpi. Il centro dei loro villaggi è vuoto, non c’è nessuno. È uno spazio che ogni tanto viene riempito dal fuoco dei racconti o dall’urlo degli incontri e dei confronti. Quando non accade niente, il centro del loro villaggio è una giostra zitta in cui il vento cammina solitario. La periferia del villaggio invece è il vero centro di ogni cosa, il luogo dove tutto accade, dove tutto parte e torna e dove, di anno in anno, in forma di memoria, si raccoglie la vita di ognuno. La pelle è il centro storico del loro respiro, la visita guidata delle loro emozioni.

Questo era scritto in quelle pagine, questo mi sono sentito di portare in condivisione, forse per dire che il pensiero delle opposizioni fa perdere di vista il pensiero del tutto, forse per dire che ogni cosa è piena anche del suo opposto ed è penetrata da ogni altra. Chissà. A volte mi capita di pensare che il centro di ogni vita e di ogni città è pieno di periferie e che le periferie sono centri in cui spesso non riusciamo ad ascoltare i modi nuovi in cui la vita degli uomini dialoga con l’incognita del chissadove, paura e meraviglia della vita ancora da vivere e da percorrere.

per citare questo articolo

Gianluca Caporaso:

Il diario di Padre Scorza,

n. 20 - Periferie,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Sin dagli anni del dopoguerra, le narrazioni di Rossellini, Visconti, De Sica, Germi e altri autori del neorealismo, non ultimi Fellini e Pasolini, documentando la realtà, hanno contribuito a costruire l’immaginario delle periferie che ha assunto un aspetto peculiare.

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Intervista a Carlo Ratti. Il suo nome compare tra i Names You Need to Know di Forbes e i Best & Brightest dell’Esquire. È nella lista delle 50 persone che cambieranno il mondo secondo Wired e tra i 50 designer più influenti in America secondo Fast Company, oltre a essere anche tra i 60 innovators shaping our creative future per Thames & Hudson.