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Arjola Dedaj + Emanuele Di Marino stringono una copia di orione durante l'intervista

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La coppia dei sogni

10 Aprile 2020
Hanno vinto medaglie di bronzo, argento e oro ai mondiali di Londra nel 2017 e agli europei di Grosseto del 2016, vantano record nazionali e una serie di molti altri premi, sempre presenti in competizioni nazionali, europee e internazionali.
Arjola Dedaj + Emanuele Di Marino stringono una copia di orione durante l'intervista

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La coppia dei sogni

10 Aprile 2020
Hanno vinto medaglie di bronzo, argento e oro ai mondiali di Londra nel 2017 e agli europei di Grosseto del 2016, vantano record nazionali e una serie di molti altri premi, sempre presenti in competizioni nazionali, europee e internazionali.

Intervista a Emanuele Di Marino e Arjola Dedaj

Salernitano, lui, classe 1989; albanese, lei, 1981; insieme nella vita e sulla pista. Corrono, forte, anzi fortissimo: Emanuele riesce a coprire 400 metri in 55.07 secondi. Saltano, anche: Arjola copre 4 metri e 72 nel salto in lungo. L’atletica leggera li ha fatti incontrare, «con il cinquanta per cento di Ema e il mio cinquanta per cento, in due abbiamo realizzato il nostro sogno al cento per cento», mi svela subito Arj. Immediatamente mi colpisce la loro sincronia, come due pezzi di uno stesso ingranaggio. Un sorriso grande e smagliante illumina il loro sguardo. Senza sapere ancora cosa hanno da dire, sento nell’aria ardere la passione per la vita, l’umiltà del successo — quello vero, che ha il sapore dell’infinito.

Perché vi chiamate La coppia dei sogni?

EMANUELE

Il progetto nasce prima del 2016 e aveva l’obiettivo di partecipare, insieme, alla Paralimpiade di Rio. Era molto difficile fare il minimo per essere ammessi, farlo insieme era un’ardua sfida. Anche se con molto sforzo — i posti sono pochi e gli atleti molto agguerriti —  alla fine ci siamo riusciti. Dopo Rio, abbiamo aggiunto anche un obiettivo sociale, per cercare di sensibilizzare le persone al tema della disabilità e per cercare di far conoscere lo sport paralimpico, di cui ancora si parla troppo poco. Raccontiamo la nostra esperienza nelle scuole, ai ragazzi, nelle aziende… Parlarne è importante.

ARJOLA

Grazie allo sport la nostra vita è cambiata, in meglio. Ci ha aiutato ad accettare la disabilità. Spesso la gente si nasconde, ne ha paura… non l’affronta o non l’accetta… e quindi non reagisce alla vita. Lo sport ci ha aiutato a essere quello che siamo, ad avere autostima e determinazione.

Avete vinto molte medaglie, realizzato molti sogni. Qual è la soddisfazione più grande?

EMANUELE

Le medaglie sono importanti, però la soddisfazione più grande è quella di essere riusciti a fare qualcosa che magari prima ci sembrava impossibile. Per me era difficile fare delle cose molto semplici e adesso riuscirci con una certa facilità è una delle vittorie principali. Lo sport mi ha aiutato anche nella vita.

ARJOLA

C’è sempre qualcosa che fa scaturire la scintilla, che fa scattare la molla per reagire o per affrontare una problematica o una difficoltà. La mia è stata il confronto con gli altri, che è bello e importante — per questo noi raccontiamo e parliamo sempre della nostra esperienza: perché come per noi è stato uno stimolo l’esempio di altri, così anche noi possiamo essere di stimolo per qualcun altro che è a casa e ha paura di affrontare la vita. Quando ho conosciuto altre persone che avevano la mia stessa disabilità e che facevano comunque vite assolutamente normali, dal muoversi all’andare in giro, dal lavorare all’usare il computer, fare sport… ecco, per me quello è stato il momento in cui ho preso in mano la mia vita e mi sono detta: se loro ce l’hanno fatta, adesso devo farcela anche io; è stata quella la sfida principale. Poi lo sport è stato l’elemento educativo che mi ha permesso di tirar fuori quello che ero. Non sono mai stata una persona timida, però mi nascondevo, perché mi vergognavo e avevo paura della mia disabilità.

Qual è la differenza tra quello che è sognato e quello che è vissuto?

ARJOLA

Per noi il sogno è un obiettivo. Quando hai un obiettivo cerchi la strada ideale per raggiungerlo. Nella realtà c’è la difficoltà di affrontare le sfide di tutti i giorni. Ci sono però anche la passione e la determinazione che abbiamo in comune e che usiamo per raggiungere quegli obiettivi.

Qual è stata la fatica più grande e il lavoro interiore che avete fatto prima di realizzare i vostri sogni?

ARJOLA

Lui ha lo stesso spirito — e la stessa barriera di Rio. Per quanto mi riguarda anche io a Rio avevo la mia barriera, che è quella della mancanza di guide: in Italia sono assenti. Qui, i non vedenti che praticano sport sono pochi e per fare sport anche un vedente ha bisogno di un’altra persona che possa aiutarlo ad allenarsi. Nel mio caso, ho bisogno di una guida che corra con me, anche tutti i giorni, se io mi alleno tutti i giorni e quindi deve avere il mio stesso livello di allenamento o superiore. Deve essere con me quotidianamente, perché se l’obiettivo è a livello agonistico, ti devi allenare duramente. In Italia non c’è questa cultura perché tutto è molto concentrato in altri sport principali, dove vincono interesse e visibilità. Nello sport paralimpico si vive quasi solo di volontariato, ma così non si può fare il professionismo.

EMANUELE

Beh… Ad esempio per me Rio è stata un’esperienza molto bella… è stata un’emozione unica, perché comunque la prima Paralimpiade… il bacino di utenza tra Paralimpiade e mondiali è lo stesso, però c’è una pressione diversa. La Paralimpiade è una manifestazione che si svolge ogni 4 anni, c’è un pubblico più ampio, internazionale. È ripreso da tutto il mondo… L’ho vissuta al 50%, sia per la squalifica che ho avuto nella gara — per aver sfiorato la riga della corsia — e quella è stata una delusione forte, perché per me l’obiettivo principale era di andare in finale. Gareggiavo in una categoria dove sono accorpati altri tipi di disabilità, che sono avvantaggiate (ad esempio atleti con una o due protesi corrono insieme ad atleti con deficit agli arti inferiori), cosa che si ripeterà anche a Tokyo. Ahimè! Se devo essere sincero, la cosa peggiore nel dover andare a gareggiare, non solo per me ma per tutti quelli che hanno una disabilità come la mia, è il non avere riconosciuto il nostro diritto di confrontarci tra pari. Questa per noi è una cosa molto brutta. Insieme ad altri atleti, abbiamo lottato molto l’anno scorso e sono riuscito a far mettere una categoria specifica ai mondiali di Dubai 2019, però non hanno accettato di metterla anche a Tokyo. A Dubai hanno messo la gara dei 400 metri — e io avevo preso un bronzo nella stessa gara due anni prima. Questa volta sono arrivato quarto, però per quanto mi sia dispiaciuto, so di aver fatto il massimo e mi sono confrontato con atleti che avevano una disabilità simile senza supporti tecnologici. Quando invece gareggi con atleti che, lo stesso comitato organizzatore dice essere avvantaggiati rispetto a te, è profondamente diverso e ti fa rabbia. Non ho potuto fare un ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport perché all’interno del regolamento dell’International Paralimpic Committee non viene data all’atleta la facoltà di impugnare una loro decisione. Partecipando devi accettare le loro regole. Al Comitato Internazionale Olimpico, invece, è possibile reclamare un diritto. Questo sancisce una discriminazione di fatto nel trattamento delle persone tra Olimpiadi e Paralimpiadi. Per noi c’è un deficit di forza muscolare e di movimento della gamba, per gli atleti che usano protesi invece c’è la mancanza di un arto sostituito con un supporto tecnologico. Questo fa sì che man mano che la tecnologia avanza, avanzano anche le prestazioni.

Puoi spiegarmi meglio la questione relativa alle categorie…

EMANUELE

Le categorie sono divise per tipo di disabilità, ma noi gareggeremo fino a Tokyo anche con chi ha una o due protesi sotto il ginocchio. Se ti ricorderai, è stato provato scientificamente che Pistorius era in vantaggio rispetto ai normodotati — non si capisce come non lo possano essere persone con protesi nei confronti di noi, a cui mezza gamba non funziona! Ho incontrato atleti nella call room e condiviso con loro momenti di riscaldamento, poi arrivavo in pista e con indosso le loro protesi erano più alti di venti centimetri… Che vuol dire avere passo più ampio e arrivare 30 metri prima. Noi poi, senza protesi, arrivavamo dopo, e questa disparità è una cosa immorale. Le prestazioni degli atleti con protesi sono completamente diverse da quelle degli atleti con una disabilità come la mia. Cambia anche l’approccio mentale con cui tu vai alla gara, per quanto cerchi di dare il tuo massimo. È solo un fatto di pari opportunità e pari diritti, tutti vogliono avere la soddisfazione di potersi confrontare alla pari. Poi chi è più bravo vince.

E adesso cosa sognate?

ARJOLA

Il sogno adesso è Tokyo.

Si può parlare anche di un vostro sogno privato che non sia sportivo o pubblico, un sogno di vita?

ARJOLA

Sicuramente ce ne sono tanti di sogni, grandi e piccoli, chiusi nei vari cassetti, che al momento opportuno apriamo e cerchiamo di realizzare. Tipo, abbiamo deciso dopo un mondiale importante di incoronare il nostro amore e cercare di avere un bambino. Ci abbiamo provato e riprovato ma non ci riuscivamo. Poi, finalmente, quando ci siamo distratti… è arrivato Leo. Mi sono allenata con il pancione e sono pure caduta in un tombino, durante un allenamento. Mi sono allenata fino a due mesi prima che nascesse e poi ho ripreso subito dopo la nascita. Siamo stimolati a vicenda e determinati a portare avanti i nostri obiettivi. Ci aiutiamo l’un l’altro, siamo complici, facciamo molte cose insieme. Forse stiamo troppo insieme… ma questa è la nostra forza.

Quando è che vi siete accorti della vostra disabilità?

Emanuele ride un po’ prima di rispondere a questo, di quel sorriso così puro, a me già un po’ familiare. Poi, subito:

Non mi ricordo, se nasci con una disabilità il corpo si abitua e per me questa è la mia normalità. Poi per fortuna la mia famiglia non me l’ha mai fatta vivere come una mancanza, quindi per me è sempre stato normale.

ARJOLA

Io l’ho vissuta in maniera diversa. I miei si sono accorti all’età di 3 anni che non vedevo. Sono nata ipovedente, e poi la situazione è peggiorata. Mi ricordo i colori, perché disegnavo tipo il verde prato, il verde smeraldo. Essendo nata ipovedente non ho mai visto benissimo, di alcuni colori non so neanche dell’esistenza. Quello che ho visto, come l’ho visto, me lo ricordo… poi magari non l’ho visto come voi…

Si dice che i sogni sono sempre collegati a delle immagini. I tuoi sogni, come sono?

ARJOLA

I sogni sono come vivi la realtà. I miei sogni non sono immagini. Chi vede le immagini sogna le immagini, io sogno ancora le cose che vedevo prima, prevale l’immagine della realtà. Come tu vivi la realtà si riproduce nel sogno, in base a quello che leggi della vita.

Tra il sogno e la realtà c’è una distanza. Mi affascina il modo in cui Emanuele e Arjola coprono questo spazio, un passo dopo l’altro. Mi incanta il loro sguardo pieno di ottimismo e di fiducia: conquistano il mio cuore… e il mio tifo!

per citare questo articolo

Gabriella Sorrentino:

La coppia dei sogni,

n. 19 - Il sogno,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Ho più volte provato a scrivere e riscrivere questo editoriale per il numero sul sogno e ogni volta ho ricominciato daccapo: quando abbiamo progettato questo numero di Orione eravamo ben lontani dalla pandemia da Covid-19 e la vita scorreva — anzi correva — come al solito.