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Se lo parli… lo suoni

29 Aprile 2019
Durante la mia adolescenza ero affetto da balbuzie. La mia sintomatologia non era estremamente grave ma abbastanza invadente da rendere ogni interrogazione in classe un piccolo inferno.

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Se lo parli… lo suoni

29 Aprile 2019
Durante la mia adolescenza ero affetto da balbuzie. La mia sintomatologia non era estremamente grave ma abbastanza invadente da rendere ogni interrogazione in classe un piccolo inferno.

Ricordo che prolungavo certi suoni o evitavo certe consonanti o intere parole come stratagemma per mascherare il problema ma non c’era nulla da fare: prima o poi arrivava il momento delle estenuanti ripetizioni, dei prolungamenti dei suoni che somigliavano a versi di foca e delle totali interruzioni che diventava rapidi preludi di silenzi imbarazzanti. All’epoca non avrei mai potuto immaginare che vent’anni dopo mi sarei trovato in classe a scegliere le stesse consonanti o sillabe più appropriate questa volta non per nascondere un difetto ma per portare alla luce il senso del ritmo e del tempo nei miei allievi percussionisti e batteristi. Gli stessi suoni di parole (detti “foni”) con cui facevo a botte mi sono oggi indispensabili per insegnare un “altro solfeggio” della musica ai ragazzi che si accostano agli strumenti a percussione nella Scuola Media ad Indirizzo Musicale, una realtà ormai consolidata da 15 anni nel ciclo didattico della scuola italiana. La mia esperienza di musicista e percussionista mi ha convinto di quanto sia forte il legame tra ritmo, corpo (movimento) e linguaggio (la lingua e i suoi suoni). In cosa consiste questa relazione? I Greci descrivevano il ritmo con parole che indicavano sempre una profonda relazione delle arti temporali con il movimento. La distinzione fondamentale è sempre stata quella tra arsis e thesis, tra slancio e appoggio. I due termini sono stati riferiti alla massima elevazione ed al massimo abbassamento della voce. Oggi è molto diffusa la teoria secondo la quale prima che il linguaggio si cristallizzasse in forme e significati comunemente accettati, esistesse una musilingua che tendeva a mescolare aspetti semantici ai condensati emotivi propri della musica. Queste osservazioni suggeriscono che da sempre la musica e in particolare il ritmo é un tutt’uno con il linguaggio inteso come movimento degli organi di fonazione i quali hanno il privilegio di emettere grida, suoni e parole. Nel secolo scorso Carl Orff, musicista e autore dei Carmina Burana, approfondì didatticamente la potenza ritmica del linguaggio e dalle sue intuizioni nacque un metodo, lo Schulwerk, che ancora oggi costituisce un valido strumento didattico nella pedagogia musicale. Il sistema orffiano affonda le sue radici in una concezione educativa che riconosce i legami con il linguaggio popolare, con i ritmi essenziali della vita, con la vita della natura. Orff parla di musica elementare definendo il concetto:

Musica elementare non è mai musica sola, essa è collegata a movimento, danza e parola. Il percorso si basa su cose che ai bambini piace fare come recitare filastrocche, cantare, danzare, battere ritmi con le mani e con tutto il corpo. I ritmi sono prodotti in formula di “ostinato” ossia si ripetono uguali a se stessi: la sovrapposizione di diversi di essi, eseguiti da differenti strumentisti, creano dei brani di musica d’insieme.

Orff dice:

[…] all’inizio di ogni esercizio musicale, sia melodico, sia ritmico, c’è un esercizio linguistico.

Egli si rifà perciò alla lingua madre. Dal tradizionale patrimonio delle filastrocche infantili, dalle sentenze popolari, dai proverbi dei contadini egli trae le più semplici forme e le prime formule di motivi ritmici, e vi scopre il modello delle prime creazioni melodiche. Dal parallelismo di frasi parlate e di melodie nascono prima frasi puramente ritmiche e in seguito ritmico-melodiche. Nella sua tesi sull’ “Orff-Schulwerk” il maestro Marcello Napoli, con il quale ho collaborato per diversi anni, ha approfondito il percorso intrapreso da Orff sotto un profilo neurocognitivo, psicopedagogico, artistico e culturale. Alcuni suoi spunti si rivelano molto interessanti. Secondo Napoli il metodo indicato da Orff unisce tre elementi: la parola, il gesto e il suono. Vengono utilizzate alcune filastrocche associate a movimenti nello spazio (locomotoria) e a movimenti sul corpo (propriocezione) e successivamente adoperate su uno strumentario ritmico-melodico. Se è vero che il ritmo è, come diceva Platone, ordine nel movimento (Leggi, 665a) e se, come sostengono oggi alcuni psicologi della musica, ci si trova di fronte ad un evento ritmico ogni qual volta si presentino due o più eventi all’interno di una pulsazione regolare sovraindicata (Sloboda, La mente musicale), è altrettanto vero che il linguaggio, fatto di parole, ha in sé elementi ritmici da poter organizzare all’interno di una pulsazione regolare. Secondo P. Fraisse

In origine, l’uomo non dispone che del proprio corpo e della propria voce. Non è irragionevole pensare […] che l’organizzazione neuromuscolare dell’uomo privilegi la ripetizione dei movimenti identici […].

La psicologia cognitivista sostiene che il linguaggio possiede alcune caratteristiche di intenzionalità che trasformano l’evento verbale in un supporto psicomotorio. Un esercizio linguistico, come può essere una filastrocca o uno “scioglilingua”, costituisce un valido prerequisito tecnico di un gesto musicale. Molto spesso, come ho osservato nelle mie esperienze didattiche, una filastrocca priva di significato, contenente suoni onomatopeici strettamente riferiti al timbro di un tamburo o ad una sequenza ritmica particolare, è per il bambino molto più coinvolgente di una narrazione cadenzata. Questo perché il ritmo delle parole possiede un fascino puro al di là di qualsiasi contenuto semantico. Anche l’aspetto dell’intonazione e dell’accentazione di un enunciato, contribuisce sia a rafforzare la motivazione del bambino di fronte ad una filastrocca, sia a creare una direzione e una struttura sintattica nella filastrocca stessa. Una filastrocca ritmica avrà quindi al suo interno:
• Una intonazione marcata, quasi esasperata
• Accenti molto forti
• Suoni ben articolati
• Ritmo ben scandito e organizzato
• Ripetitività intrinseca che rinforza e facilità la memorizzazione.
La propriocezione rappresenta la seconda tappa dell’apprendimento musicale. Essa costituisce un canale naturale e immediato in quanto il corpo è contemporaneamente strumento e strumentista. L’impatto del gesto-suono (battito delle mani, mani sulle gambe o sul petto, etc.) fa sì che il ritmo della parola venga tradotto in due modi: una realizzazione motoria, legata ad un atto volontario, anche se imitativo; una realizzazione sonora in base alla quale il suono diventa una conferma ritmica. Mi è capitato spesso di organizzare in classe quello che ormai spopola in internet come body percussion una composizione per parti del corpo percosse in vario modo e organizzate in un ensemble di “strumentisti” di se stessi. Il suono, infine, si presenta come la “ cartina di tornasole” di un percorso verbale e motorio. Napoli dice che

[…] occorre partire da un assunto: il suono nasce dal movimento. Detto questo la considerazione successiva è che, nel momento in cui noi percepiamo un suono, nel nostro sistema uditivo avviene un movimento…

Questo è quanto accade in presenza di ogni singola stimolazione sonora. È facilmente intuibile, ora, il perché, in determinate circostanze, il nostro corpo sembri non riuscire a controllarsi quando percepisce sonorità accattivanti e coinvolgenti, come ad esempio alcuni ritmi tribali eseguiti sui tamburi, oppure alcuni ritmi latino-americani. Questa descritta è la stretta relazione che si crea tra il fenomeno sonoro e la risposta motoria viene definita (dalle varie correnti di psicologi e neuro-fisiologi) isomorfismo. In altre parole, l’onda sonora che si crea nel nostro sistema uditivo causa una diretta ricostruzione di se stessa dal punto di vista neuro-muscolare. Se proponiamo, ad esempio, ad un gruppo di bambini di muoversi su di una stimolazione ritmica verbale scandendo la parola takète, vedremo un gruppo di piccoli robot scattare in modo meccanico. Reazione opposta si avrebbe se tutto avvenisse sotto induzione verbale con la parola maluma, in questo ultimo caso i movimenti diverrebbero rotondi, sinuosi e controllati. La psicologia del ritmo ci dice che, in determinate condizioni di successioni di eventi sonori, tutte le stimolazioni ritmiche sono percepite come se fossero raggruppate e la ripetizione di questi gruppi dà luogo alla percezione del ritmo. Se in un ambiente silenzioso ascoltiamo i rintocchi della lancetta di un orologio, noi li percepiamo raggruppati a due o a tre, più raramente a quattro (tant’è vero che si dice in genere: “Il tic-tac di un orologio” identificando un gruppo di due elementi con due parole diverse), anche se la sequenza dei rintocchi è perfettamente regolare; non c’è nessun fattore legato alla serie di rintocchi che determini un qualsiasi raggruppamento: si parla in questo caso di ritmizzazione soggettiva. Accadono poi due eventi altrettanto soggettivi legati al raggruppamento percepito. Prima di tutto l’intervallo fra due gruppi successivi appare più lungo di quello fra gli elementi del gruppo (quando c’è uguaglianza fisica); in secondo luogo il primo elemento del gruppo sembra più accentuato degli altri. La ritmizzazione sarebbe stata oggettiva se un intervallo periodico più lungo degli altri avesse creato una pausa o se un elemento su due o su tre, fosse stato realmente accentuato.

La mia idea parte da qui: rielaborare nuovi sistemi di comprensione e traduzione del segno musicale (scrittura) tenendo presente la stretta relazione esistente tra ritmo, corpo e linguaggio. Per avvicinare un bambino all’esecuzione di figure musicali, di ritmi e rudimenti per tamburo non si può partire subito né un approccio visivo allo spartito musicale né ad una decodificazione di tipo matematico e divisivo; credo piuttosto che una lunga fase di apprendimento debba essere centrata sull’esperienza pratica di cose che al bambino piace fare come scandire uno scioglilingua sempre più complesso e sempre più veloce. Presupposti teorici ed esperienza mi hanno portato a credere che l’utilizzo del linguaggio nella pratica ritmica aiuti a rafforzare la ritmizzazione soggettiva rendendola oggettiva.

per citare questo articolo

Ugo Rodolico:

Se lo parli… lo suoni,

n. 7 - La musica,

ISSN 2611-0210 Orione Cartaceo; ISSN 2611-2833 Orione online in formato accessibile

In questo numero

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Come è noto, per uno studente di musica non vedente è difficile, se non impossibile, avere una comprensione immediata di una partitura, che per poter essere suonata, deve essere prima di tutto letta a frammenti e memorizzata.